La Rosa
(vv. 1431-1853)


Cognito ogni sembiante
de l'ambito danzante
fatto de gente insigne,
omini e donne incigne
(tuti d'una famiglia
per schiatta censo e striglia)
me rivolsi al verziere
da le folte ucelliere
canore. Arbori c'era
d'ogni foia e maniera:

melauri, noci e pini
piu' de tuti i giardini.
Le carole finiva.
Se disperdea giuliva
la compagnia galante
a coppie 'ntra le piante,
in cerca de ripari
segreti, unici, rari.
Dio, che bel vive e' ama'!
chi non desia de sta

'ntra foie o sub cortina
con l'amata vicina,
viso davanti a viso,
non sa cos'e' l'eliso.
Io me ne andai distratto
sicome va un cerbiatto
ramengo ad esplora'
l'arborea varieta'.
Quando me vide, Amore
se drizo' proditore

e ingiunse a Bello Sguardo
(ad ubidi' non tardo)
de ridaie a l'istante
l'arco liscio, sgargiante
d'artistico lavoro,
con le quadrelle d'oro,
e me segui' conforme
ad uno in scerne d'orme,
sempre con l'arco in pugno.
Ahime', cosa ie' opugno,

pensai, se 'l dardo scoca?
Ma non el vidi in coca.
Cosi', svagatamente,
a l'estrosa corente
de la curiosita'
ripresi el camina'.
Al dio dietro in aguato
non facendo mai stato,
lasciavo esigua tracia
al rischio e a la minacia.

Era, el suave ricetto,
un quadrato perfetto,
pieno de piante ombrose,
vaste de fronna, ariose.
Arboro che se voia
non d'infeconda foia
se vestiva ma tuti
dei piu' svariati fruti
e ce n'era piu' d'uno
per specie, salvo alcuno

dal caso invero raro,
nato solingo e avaro.
Spiccava i melograni
dai pomi ricchi e strani,
con chicheti rosati
boni a guari' i malati,
noci de grande astanza
carighi d'abondanza,
mandorli, fighi assai,
datteri visti mai,

cannella in gran dovizia,
anice, rigolizia,
grani de paradiso
novello e 'l resto ariso
d'altre esotiche spezie
dilettose, non lezie,
in fine de banchetto.
Nel giardino c'ho detto
c'era nostrali piante
frutifere, ma tante,

che dava mele, pere,
giallette prugne e nere,
noci, castagne, pesche,
cotogne, dolci e fresche
cerasole rubine,
puranco soprafine
sorbe de Fontemblo'
(solo meze pero'
sortisce zucherose),
noccioline gustose.

Olivi, faggi, olmi
c'era, nodosi e colmi,
cipressi, aceri, abeti,
tremuli sempre inquieti,
carpini, querce e ancora
frassini ed altra flora
che tuta afastela'
non se pudri'a in rima'.
Alti e grandi secondo
le regole del mondo,

'ntra loro era disposti
con ordine, e discosti
de cinque tese o sei
siche' a intrecio de bei
rami facea sufitto
erto compatto fitto
che tenea el sole a lassa
(non un ragio ce passa
tanto da fanne lesa
l'erbetta soto stesa).

Sempre nova riempiva
erba folta ogni riva,
piu' velutata e d'agio
da un letto de piumagio.
Mai el brolo giacque arsito
stante l'acqua del sito,
talche' su conveniente
veni'a l'erba virente.
Asortiti vivaci
fioretti pertinaci

in estate e in inverno
(pel rifiori' duerno)
variegava el verziere
face'ndone un gemmiere
de corolle violette,
pervinca, vermigliette,
bianche (parea trapunti
drento a un arazzo sunti).
D'ogni fiore el profumo
auliva a sfumo a sfumo.

Una fauna copiosa
c'era, mite, frusciosa
de daini, caprioli,
rampigni festaioli
su per ruvidi tronchi
scoiattoli mai cionchi.
Sorti'vane cunilli
fori de tana, arzilli,
con milanta carole
de ruzoli e capriole

che p'ogni dove chiotti
se disperdea, e leprotti.
Laghetti senza schiere
de ranochie ciarliere,
tranquilli mormorii
de ruscelli e de rii
dai non visti traciati,
per silenziosi prati.
Drento la quadra cinta
(al lato esterno pinta)

senza fermamme mai,
per tuto vede andai
in largo e in lungo. Dietro
me veni'a a metro a metro
con l'arco in pugno Amore,
simile al caciatore
che la bestia oservando
fabula el come e 'l quando.
Cosi' giunsi a un bel sito
arcano ed assolito:

c'era un pino e una fonte,
come diro', bifronte.
Pose qui con bravura
una vasca, natura,
de marmo con sorgente,
soto un pino possente.
Fin dai tempi de Carlo
ve dico, non straparlo,
non se vide, e Pipino,
conforme a quello un pino.

El bordo soprastante
de la vasca, inquietante,
recava a fine inciso
la scrita che Narciso
ivi cadde e mori'
dietro a un folle pati'.
Narciso era un donzello
senza confronto bello.
Da l'amoroso lacio
preso, pel crudo impacio

tanto se turmento'
c'a l'ultimo spiro'.
Cagione de disgrazia,
Echo, l'infine sazia
dama de vendicasse
de chi a dulor la trasse.
Echo per quel fanciullo
ogni bene e trastullo
scordo' ne la sua brama.
El decoro de dama

perse: pianse, imploro'.
Narciso ricuso'
ogni dulente impetro.
Rise, fugi'. Ad un tetro
furore Echo se volse
contro chi non la colse.
Cosi' s'estenua. More.
Prima pero' el dio Amore
prega afinche' sia preso
da un pegio lacio e ofeso

Narciso in non sperata
cosa d'ave' desiata.
Ragionevole e giusta
a la persona augusta
del dio sorte quel prego.
Asenso da' al dispiego
de l'esemplare evento,
fino a l'esudimento.
Ecolo un giorno al fonte,
Narciso. Corso a monte

e a valle avea in battuta
dietro a la preda muta.
Suda, arde de sete
(el dio spande la rete).
Soto al pino possente,
un'acqua de sorgente
- drento una pietra cava
lustra come una grava -
vede. Se china e sporge
per beve: un viso scorge

de legiadra fattura.
E' bello a dismisura
quel viso dai labretti
vermigli e carnosetti.
Un fanciullo perfetto
ie' sta davanti al petto,
e Narciso le mani
protende a carpi' inani
quella belta' sorgiva.
Non sa che tiene a viva

d'amorosa presenza
cosa de vaga essenza.
Sopra el fonte s'atarda:
guarda, geme, riguarda.
Desia senza ripago
la prediletta imago.
Qui la glossa finisce.
Narciso non guarisce:
perde polpa con scorza
preso drento a una forza

da cui nullo dislega
omo preso, e che nega
a lui solo el conforto.
For de senno, fu morto.
De se stesso a la casca,
giacque drento la vasca,
donde el motto: Narciso
afogo' nel suo viso».
Dame, date mercede
se l'amico la chiede,

non lasciate per via
la sua malinconia.
Da questo antifonario
v'e' cognito el salario
a Narciso tocato
de non amante amato.
D'amor legge verace
rende al desio la pace.
Quando lessi la scrita
de la fonte onde ascrita

la seppi al bel Narciso,
fui de codardo aviso
e riluttai dal bordo.
Tuto intorno era ordo
floreale silente.
cosa teme'? Prudente
guardai ne l'acqua, chino:
pareva argento fino
drento la pietra cava
de la vasca la biava

renella. Una sorgente
unica al mondo: niente,
pur d'entita' e belleza,
vale la sua frescheza
che sempre se rinova
e da due docie sdova
per murmuri fugiasca.
Vidi in fondo a la vasca,
nel punto de l'avallo,
due globi de cristallo.

Rincorato oramai
si' tanto li mirai
che ne capii el prodigio:
quando su tuto, ligio
al suo giro, risplende
el sole e un ragio ofende
el trasparente dosso
dei globi, eco un comosso
efetto de colori
per acqua anda' in splendori

indaco, rossi e gialli
torno torno ai cristalli.
Ora la chiosa imprendo
d'altro fatto stupendo:
ogni minima cosa
che fosse, la piu' ascosa
del brolo e piu' celata,
veniva figurata
sul spechio d'acqua pura
conforme a una pittura.

Cumpariva a l'istante
mille imagini spante
d'evidenza altretale
de l'entita' reale.
Da qualsivoglia punto
de la vasca el sogiunto
astante la meta'
vede del tuto ma,
spostandose, fidente,
pol vede el rimanente.

Quel che 'l miraglio mostra
ai ochi poi s'inchiostra
ne' val scancelatura:
l'imagine perdura.
Cosi' nasce el desio:
omo non c'e' ne' dio
da sopinne el turmento
per un solo momento.
L'ordinario senti'
eccede e fa strani'

la mente ne le ambasce
de la follia che nasce.
Senza misura e modo,
in cerca del suo nodo,
va ognuno al Lete o al Stige
de la desiata efige.
Qui Cupido e' signore:
qui spande el gra' d'amore,
la dolciana semente,
che copre la sorgente;

qui tende, in giro, i laci
e i morbidi setaci
de le reti ai ucelli
grati al dio: belle e belli.
Per la semente efusa
quella d'Amore s'usa
fontana nomina'
conforme a l'esse e al fa.
Figure inumerevoli
d'obietti dilettevoli

afiorava dal mallo
dei globi de cristallo
con nitido rispando.
Ahi! li guardai e quando
l'atto fugi' compiuto
io vidi, e fui perduto.
Sopra l'equorea fronte
stupenda de la fonte
se rispechiava un sito
dal riparo acanito,

irta fratta, viluchio
che strigneva 'nt'el muchio
de le spine gelose
rosai carghi de rose.
Quale smania d'approcio
per quelle operte e in bocio
rose me rampo' via?
Donato avria Pavia
pure d'anda', o Parigi,
ai fioriti fastigi.

Al punto m'apressai
dei stracolmi rosai,
incontro al suaditore
loro dispaso odore.
Me sentivo l'entragne
come se fatte bagne
d'un saporoso aroma
(valga come un assioma:
l'unguento piu' afinato
de corpo imbalsamato

dianzi a quella fragranza
non avria rilevanza).
Desiai una rosa, una
da spica' su l'impruna
ma sari'a stato dolo
pel signore del brolo.
Soto al lume del cielo
bocioletti col velo
c'era ntra folti stoli
de piu' gonfi bocioli.

Oltre le operte rose
io li pregio, pompose
al matino, fiorite,
e de sera apassite.
E' meio la ventura
dei bocioli che dura
due giorni o tre, con sfogio
de tinta in gerbo allogio.
Ne prendo su un corbello
da fammene cappello,

me dissi e a fa m'acinsi.
Ma repente distinsi
solingo un bocioletto
in cima a un gambo eretto
come un giunco. Belta'
de schiva unicita',
lieve come un cartiglio,
delicato, vermiglio,
era idea ed era cosa
quel bociolo de rosa.

Simetriche, duerne
sul calamo, ed alterne,
otto foie guarniva
la rosa promissiva.
Quando anusai el suo odore
seppi che ne' p'amore
ne' per forza strappato
saria da l'incantato
fiore, da vivo, mai.
Subito l'acostai

per coielo, ma invano:
s'ergea contro la mano
la driza de le spine
come un stigio confine.
Amore, non distante
(no avea smeso un istante
de seguimme, spiando,
l'arco in pugno), alorquando
me vide de l'altero
fiore preso - foriero

d'amoroso gastigo -
se fermo' soto a un figo
e incoco' una quadrella
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
   

 

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