|
Il sole in fondo al labirinto
La forma del poema, oggi inconsueta anzi quasi
obliterata, segnala un progetto che non si appaga della composizione
singola (quella specie di pointillisme che utilizza il componimento
breve, il mottetto, a partire almeno dai poeti "vociani")
ma ambisce a un'articolazione ulteriore, per cosi' dire molecolare,
in cui la lirica si intrami alla narrativa, all'epica, alla riflessione
filosofica. In altri termini, e' come se la parola "monologica"
della poesia esigesse la restituzione della parola "polifonica"
che e' esclusivo appannaggio del romanzo, respingendo il decreto,
non scritto ma accettato dal senso comune, secondo cui alla poesia
spetterebbe il versante dell'interiorita' e alla prosa quello
del mondo fisico. Questo e' infatti il risultato d'un processo
di progressivo sdoppiamento che scinde percezione dall'esterno
e sensazione all'interno affidando alla seconda (in modo dittatoriale,
aggiunge Hugo Friedrich, il massimo teorico della lirica novecentesca)
la legittimita' dell'espressione poetica.
Solo in casi eccezionali i due ambiti separati tornano a percepirsi
come una cosa sola, a fondersi in un segno che abbia insieme
misura verticale e orizzontale, spessore ed energia cinetica;
ed e' il caso di El Sol, il poema con cui alla maniera di un
involontario testamento Franco Scataglini culmina un percorso
d'autore che per l'originalita' dei moventi e il vigore della
resa formale ammette davvero pochi riscontri nella letteratura
contemporanea. Esso si compone di oltre mille versi in quartine
di settenari ed e' scandito in cinque parti, unitamente a un
prologo e a un epilogo. E' steso nella lingua che Scataglini
ha trovato relativamente tardi, dopo oltre vent'anni di prove
clandestine, ma che denota una fisionomia compatta gia' nelle
due raccolte inaugurali:(1) una contaminazione o meglio una oscillazione
fra l'italiano letterario e una parlata locale ormai scomparsa,
dove i reperti del gergo marinaresco si combinano coi calchi
dell'officina romanza, con le voci ispide ma vere di quei poeti
(Bonvensin, Brizio Visconti, Olimpo da Sassoferrato) attivi prima
che la grammatica del Bembo, alla meta' del Cinquecento, separasse
i dialetti dalla norma petrarchesca rigettandoli fuori della
Corte e dell'Accademia e confinandoli per sempre nel ghetto dei
vernacoli.
E se alcuni immediati precedenti (da Giotti a Noventa al Pasolini
friulano) possono esserne stati lo stimolo, e' certo che la scelta
si deduce da un vincolo piu' profondo, di natura esistenziale,
come sottolineano le ripetute dichiarazioni del poeta: "Il
mio dialetto non corrisponde al parlato, o solo nelle sonorita'
che lo fondano. E attraverso quelle io risalgo a somiglianze
originarie: i miei modelli sono duecenteschi ... L'assunzione
del dialetto e' connessa ad una segreta identificazione di intellettuale
solitario ed isolato con quella degli uomini che vengono posti
al margine della storia";(2) e in termini espliciti, pressoche'
definitivi: "Una poesia, quella popolare, che cela nelle
sue pieghe lo struggente sentimento del tempo, della brevita'
amara e folgorante della vita, della irrealta' e caducita' di
una bellezza minata dalla coscienza dell'universale sfruttamento,
in cui si dissipa l'esistenza delle creature condannate alla
nuda e cruda riproduzione di cio' che e', di cio' che e' sempre
stato: il dolore. E' la poesia di chi avrebbe dovuto essere muto
per decreto della storia del dominio: muto come le piante e gli
animali, asservito all'immanenza della natura asservita".(3)
Il poeta anconetano coglie dunque una lacerazione e la riferisce
sia all'ordine dello spazio sia a quello del tempo: la lingua
dei secoli tagliata agli anonimi poeti neolatini, nella cui voce
sentire e dire potevano ancora coincidere, si proietta al presente
nell'esproprio di parola, dunque di senso e destino, per chi
sta ai margini dell'esistenza, muto per selezione storica e di
classe. Ricomporre nel segno la frattura di lingua e dialetto
equivale allora a rinsaldare le parti divise, a tradurre la nuda
e dolorosa pulsione in un atto di coscienza, l'afasia nella voce
di chi mai l'ha avuta. Le immagini del mattatoio, del carcere
e del labirinto, da un lato, e quelle della rosa e del giardino,
dall'altro, sono infatti i poli allegorici entro i quali si situa
tutta l'opera di Scataglini, dislocata come un periplo del negativo,
scaturita dalle zone buie e interdette dell'umano per accedere
alla parola che le libera, riscattandole. Non a caso l'itinerario
di El Sol viene preparato, persino doppiato in anticipo, dalla
pubblicazione de La Rosa, che l'autore definisce "sogno
di un sogno", libero rifacimento del poema medievale di
Guillaume de Lorris, in cui il protagonista dopo aver valicato
le insegne del male accede al perimetro del bene, incantandosi
al cospetto del Valore piu' alto, l'emblema che riunisce il nome
dell'amata, e la parola della poesia; altrettanto non a caso
nel titolo del Sol (che e' la sigla di una fabbrica vagheggiata
nell'infanzia) resistono almeno due possibili cifre della vita
tratta in salvo: la musica, e il calore dilagante del sole.
"... sul breci' dei paoni,/ eterna ecelsa
immota/ esibiva la rota/ dei mondi 'n'tra i lamponi." Il
proemio chiude su un'immagine circolare, cioe' etimologicamente
compiuta. Nello splendore dei pavoni che fanno la ruota un ragazzo
sfollato (povero, senza studi regolari, ignaro di se') vede per
un attimo ricompensarsi la miseria. Lui sta li' spaventato e
attirato da qualcosa che tacitamente lo condanna all'esclusione.
La bellezza dei colori, la sorpresa di un giardino intravisto
nel ricomporsi del piumaggio, e' identica a quella che adulto
riconoscera' nel dono del padre ex ferroviere che non ha lasciato
traccia di se' se non nella cura di un orto. Gia' nella prima
raccolta il poeta ne sentiva l'eredita' e vedeva in essa l'impotenza
e la disperazione dei milioni di inermi sottoposti alle forze
di storia e natura: "... e pe' non mori'/ muto com'eri stato,/
m'hai lasciato un giardi'".(5)
Tutta la prima parte, eponima, del poema e' costruita sulle cadenze
di un romanzo di formazione e sui ritmi erratici di chi cerca
un "reame d'altrove" ma non sa perche', ignorando le
cause del desiderio. La campagna, il fiume, il greto intatto,
la fabbrica dell'ossigeno liquido (il S.O.L. recluso in un giardino)
colmano l'orizzonte percettivo ma non lo saziano. Cosi' vicini
rappresentano l'inaccessibile, con la loro imponenza entrano
nel vuoto della parola senza poterla innescare: "... era
el dono de allora/ l'impossibile vita". Quanto piu' forte
e' l'esigenza di appropriarsene, tanto piu' sterile, privo di
direzione consapevole, si rivela lo slancio del ragazzo. L'oggetto
gli e' vietato perche' il suo desiderio e' incognito, non delimitato;
vive dentro un alone e non sa distinguere realta' da utopia,
allucinandole ora alla pari di un carcere ora di una fuga: l'immagine
del treno che corre via fra i campi o d'un'automobile dentro
l'effetto "Doppler" danno la sensazione del passare
e dileguare, d'un eterno ritorno gratuito proprio perche' labirintico.
Nel libro terzo(6) di Scataglini, all'altezza della maturita'
espressiva, la perfezione del paradiso era ancora nient'altro
che la struttura vuota dell'Explumeor, il castello tuttovetro
dei provenzali, in grado di lasciar trasparire il desiderio allo
stato puro, che brama se stesso divorandosi. Gli effetti venivano
anticipati, in forma di cortocircuiti e antitesi, nei passaggi
piu' aspri dei primi volumi: "... cio' 'nt'i ochi un recluso/
desi'o senza parola";(7) oppure: "... io so sta vita
esplosa/ che su de se' ripiomba".(8) Vale a dire un'urgenza
che non trova sbocco, implodendo, ovvero un'esplosione a vuoto
che lascia intatto il mondo esterno, cenere del desiderio beffardamente
ricaduto su se stesso.
Gli ambienti della seconda sezione "Valle Miano" (quartiere
di Ancona dove il poeta ha trascorso l'infanzia) sono i medesimi
che facevano da sfondo ai poemetti di Carta laniena, un titolo
desunto dal verbo latino che indica l'atto del macellare. Per
dilatazione allegorica, le mandibole di un bucranio circoscrivono
lo spazio del concentrazionario domestico. E' la sinistra insegna
del mattatoio comunale a esprimere direttamente il luogo del
patire, d'una spasmodica cognizione del dolore; l'accesso al
vivere si rivela una continua fitta, un venir meno del fiato
cui neanche l'abbandonarsi al sonno sembra concedere tregua:
"... La resa/ al sonno, 'nt'una stretta// dolorosa ogni
volta,/ come se fosse el mo're". Vivere non significa disporsi
al morire (tipico di tanta poesia di matrice esistenzialista)
ma l'esperienza depressiva della spoliazione, giusto nel momento
in cui l'impulso ambirebbe a impossessarsi del luogo, per eluderlo.
Al riguardo, in uno dei testi piu' intensi della terza raccolta,
"El studente de Praga",(9) Scataglini ricorda di essersi
riconosciuto negli sdoppiamenti e nelle oscure forze che visitano
il giovane del film tedesco, "imago dei divisi", sagoma
spezzata nel varco fra io e se', tra la vivacita' del profondo
e l'inerzia del vissuto reale. Qui persino l'aiuola antistante
il mattatoio nega la compostezza del giardino e la bellezza dei
fiori: il poeta dice di averli strappati con orgasmo, avvertendone
la seduzione (ancora la promessa di un altrove) e nello stesso
tempo la trasgressione di un divieto. Ma continua a sentirsi
un Lazzaro in fuga, ben presto sprofondato col suo carico di
irresolutezza fra le macerie del secondo conflitto mondiale.
"La guerra" e' il titolo della sezione baricentrica
del poema e presenta Ancona in fiamme, sbriciolata dai bombardamenti,
pari a una periferia dell'Ade. Le strade sconnesse, i crateri,
il fumo sospeso, riassumono quel che prima si localizzava nelle
figure, non meno crude ma distinte, di carcere/mattatoio/labirinto.
Tutto adesso pare incarbonirsi e svanire senza neppure il conforto
della parola; l'orrore e' tanto esteso che, disponendosi all'universale,
travolge non solo gli individui ("persino el mite esiste/
dei bimbi era fallace"), ma si adatta alle trame del quotidiano,
diventa la normalita'. I frantumi memoriali di "Laudario"(10)
(breve silloge che fungeva da ponte fra il negativo devastante
di Carta laniena e la ricomposizione allegorica de La Rosa) anticipano
questa minuta geografia della sopravvivenza, culminante sugli
stracci e i volti umiliati degli ebrei che frugano tra le macerie
dietro la sinagoga. E sono anonimi eroi, sguardi di agnelli sacrificali,
se del resto e da sempre per Scataglini abrevo (ebreo) e' un
termine-chiave che vuol dire vittima, cioe' uomo per antonomasia.
Nella deriva dello sfollamento, la fabbrica del S.O.L. compare
d'improvviso simile a un antico maniero carico di prodigi inespressi.
E' un monolite, un assoluto chiuso a enigma in attesa della parola
che, sfatandone il mistero, sappia intanto liberarsi. L'apparire
del S.O.L. materializza in effetti la possibile conciliazione
di mondo e parola, e' la scena primaria da cui muove, obiettivando
il desiderio, il destino dell'autore; il luogo dove storia e
natura si placano nel flusso totalmente dispiegato della voce.
Il tacere degli elementi (l'assenza di rumore, la calma del vento)
prepara l'affiorare d'una decisiva e successiva immagine, gli
occhi dei contadini riuniti intorno al desco, in cui brilla una
luce fraterna. E' il sogno d'una poesia pentecostale, viatico
che risarcisce l'umanita' degli esclusi: "Fu 'n sogno? Eppure
dura/ piu' del vero, memento/ de l'altrove, in figura,/ dove
finisce il vento".
La scoperta della poesia si combina, nell'immediato dopoguerra,
alla passione politica. Due rinvenimenti simbolici ne sanciscono
l'iniziazione, una copia degli Ossi di seppia montaliani e una
stella rossa pescata sui banchi di un mercatino. Confessera':
"A sedici anni ho letto Montale, per caso, in una biblioteca
circolante dove andavo a portare per mano la mia solitudine.
Cosi' sono andato dentro la poesia moderna, io che venivo dalle
scuole industriali dove si faceva Dante sulle tavole del Gustarelli
e dove non si andava mai piu' in la' di "A Silvia":
fu come se i piu' deietti oggetti dell'universo quotidiano si
mettessero a parlare in sanscrito".(11) Il primo simbolo
possiede dunque cio' che manca al secondo, l'uno e' affascinante
ma impenetrabile, l'altro e' fraterno e derelitto. Il poeta intuisce
che la propria parola o riuscira' a sgorgare oltre la contraddizione,
recuperandone le manques, o non sara' affatto.
Il breve periodo dell'impegno politico reca i segni della delusione
(".... quel vechio distintivo,/ l'astro che non rimase")
e intanto il germe di qualcosa che scampi l'utopia dal tradimento,
un umanesimo che dia cittadinanza agli esseri nella loro pienezza
creaturale, come poi canteranno i suoi primi testi al ritmo salmodiante
dell'antica lauda: "Tuto e' corpo d'amore/ mischiato al
bene e 'l male,/ tuto e' 'l fenomenale e'ssece".(12) La
parte del poema che si intitola "Stella vermiglia"
dice appunto di esaltanti letture marxiste, dei comizi in provincia,
della gioventu' affratellata nel sogno di una cosa prima dell'impatto
col falso altrove, l'Unione Sovietica di Stalin, dove il romanzo
di formazione si conclude esalando un senso di smacco, di sfregio
immedicabile.
I versi rimandano a un viaggio effettivamente compiuto nel novembre
del '51 con una delegazione di giovani comunisti italiani fra
cui Italo Calvino, quando il poeta scopre che il paradiso della
perfetta reciprocita' e' invece il mondo della menzogna sistematizzata.
La poverta' e il torpore (le mummie del Cremlino, i proletari
docili e spenti) contraddicono il sogno annunciatosi dal perimetro
fatato del S.O.L., lo rovesciano in emblemi di spaesamento e
morte; nell'ultima sequenza in particolare, relativa alla parata
del 7 novembre, all'oro delle uniformi corrisponde il grigiore
del popolo, l'"abisso materno" (dolce fino alla passivita')
della folla che dilaga ma solo per rientrare nel vallo, in una
gigantesca fossa comune. Proprio li', in quella pena senza nome
che annichila persino i rimorsi, torna a fermentare la prima
radice dell'utopia: "... e un altro me dal scuro/ veniva
col suo pegno/ dei mondi del futuro,/ bellissimo el disegno".
E' il disegno o l'indotto a esprimere la vicissitudine di se'
nel reale, la catastrofe dialettica di chi aprendosi all'esterno
si ritrova ammutolito all'interno. E per questo esige l'ultima
parola, la chance estrema della poesia.
Quasi che il tempo bruciasse oppure scomparisse in una vena sotterranea
(non e' infatti aneddotico rammentare l'esperienza psicoanalitica
di Scataglini, tra gli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta)
la sezione terminale e' in appiombo sull'oggi e ha il titolo
eloquente di "In assenza d'orizzonte". Si apre su un
deserto domestico in cui si spandono le note di Keith Jarrett
al pianoforte: si vede il seme essiccato sopra i letti rivoltati
come bare, gli spettri che affiorano muti da un nulla televisivo.
L'io che percepisce e dice e' fuori campo, dilata la sua voce
per cerchi concentrici e torna idealmente all'incipit del poema,
all'immensa trafila dei trapassati: il padre, la madre, il fratello,
gli anonimi e i poeti che hanno conosciuto la verita' nell'esattezza
lancinante della tragedia (Attila József, Vittorio Reta,
Pier Paolo Pasolini). Se il destino di uomini e cose sembra identificarsi
col passato che li spegne uno dopo l'altro ("... niente
al tempo resiste/ invero niente esiste",(13) aveva scritto
ne La Rosa) la parola puo' tuttavia serbarne la memoria. Dilazionarne
a tempo indeterminato la fisica cancellazione, esserne l'incisione
lapidaria: "In questa bigia pigra/ consuetudine d'ore,/
pensai solo a un'epigrafe/ nuda, senza dulore".
Qui il poema giunge al vertice, tocca l'incandescenza del pensiero-poesia,
memore di Lucrezio e leopardi. Gli esseri nati dal niente e scagliati
verso il niente hanno il tratto elementare di elementi cosmici,
fragili ma irrepetibili sul quadrante dello spazio e del tempo,
percio' affidati a un segno che ne sostiene e ne prolunga l'orbita.
Esseri precipitati nel mondo senza saperlo ne' volerlo, esposti
a tutto ma oscuramente inclini a riconoscersi nel "nesso
iridescente", il verso capace di tramutare la dispersione
caotica della morte nella forma piu' duratura della vita. L'ultima
immagine mostra il mondo cosi' com'e', nella sua polarita' di
vita e morte, positivo e negativo, grano che fruttifica e vento
che disperde; il commiato di Scataglini si compie all'aperto,
dentro un mare di frumento a picco sotto il sole: "Sul mare
del frumento,/ dulceza e nostalgia/ de nave senza scia/ chi rivedra'
piu' el vento?". L'ombra del S.O.L. e' finalmente rifluita
nel sole, nella musica avvolgente delle parole.
___________________
1. E per un frutto piace tutto un orto, intr.
di P. Acquabona, Ancona, L'Astrogallo, 1973 e So' rimaso la spina,
intr. di C. Betocchi, L'Astrogallo, 1977, poi entrambi in Rimario
agontano (1968-1986), a cura di F. Brevini, Milano, Scheiwiller,
1987.
2. "Questionario", Diverse lingue,
n. 1, 1988.
3. "Introduzione" a Olimpo da Sassoferrato,
Madrigali e altre poesie d'amore, a cura di F. Scataglini, Ancona,
L'Astrogallo, 1974, p. 13.
4. La Rosa, intr. di C. Segre, Torino, Einaudi,
1992.
5. Rimario, cit, p. 31.
6. Carta laniena, intr. di F. Scarabicchi,
Ancona, Residenza, 1982, poi Rimario cit.
7. Ivi, p. 36.
8. Ivi, p. 41.
9. Ivi, p. 115.
10. Ivi, pp. 147-221.
11. "Intervento", Marka, n. 6-7,
1983.
12. Rimario, cit, p. 79.
13. La Rosa, cit, p. 23.
__________
di Massimo Raffaeli su "La Rivista dei
Libri" n° 7/8 1995
|