Diagramma per Franco Scataglini

 

come 'l sol fa la rosa quando aperta
tanto divien quant'ell'ha di possanza
Dante, Par., XXII, 56-57

I. Tracciare un diagramma del percorso di Franco Scataglini (Ancona, 1930) e dunque tentare di riconoscere i tratti distintivi e i nuclei significativi d'una tra le formulazioni piu' originali della poesia italiana del dopoguerra comporta una prima impasse circa i modi dell'apprendistato. Se la data d'esordio ufficiale (e con essa l'immediata rubricazione nell'alveo tanto imprecisabile dei poeti dialettali) puo' apparire tarda (E per un frutto piace tutto un orto(1) esce nel `73) va subito aggiunto che Scataglini, quasi privo di studi regolari, ma coltissimo autodidatta, vi perviene da oltre un ventennio di esperimenti in lingua. E, al riguardo, il fatto che la prima e unica plaquette giovanile(2) sia scomparsa e a tutt'oggi irreperibile anche presso il destinatario e' eloquente al di la' dell'aneddoto privato. Varie volte, a posteriori, Scataglini e' voluto riandare a quella clandestinita' in cui poteva esplodere la gioia d'una scoperta, ma insieme coagulava il gelo d'una reclusione: A sedici anni ho letto Montale, per caso, in una biblioteca circolante dove andavo a portare per mano la mia solitudine. (...) fu come se i piu' deietti oggetti dell'universo quotidiano si mettessero a parlare in sanscrito».(3) Io ho amato subito tre poeti: Saba, Penna e Caproni, e li ho letti in modo sfalsato (prima Penna, poi Caproni, poi Saba, a parte l'infatuazione giovanile per Montale: ci ho messo anni per liberarmene, anche se poi m'e' rimasto nel cuore e nella mente)».(4) Le cose gli parlavano, ma in sanscrito; se il suono ammaliava, non corrispondeva che per vibrazioni remote (araldiche) alla condizione di chi vive al margine senza strumenti e maestri, muto per selezione storica e di classe, senza possibilita' di parola che non sia quella subi'ta o accettata per procura. Il lungo silenzio di Scataglini vale il rifiuto di ogni epigonismo mentre occulta la ricerca d'una voce in cui esperire e dire (suono e senso) facciano corpo vivo, percio' d'una parola da trovare prima (o al di la') del canone sancito dal Bembo sulla grammatica petrarchesca, in base a cui la dominante culta e glaciale consegnava e sanzionava i residui dell'esperienza corporea nell'esclusiva sacca del comico. Rifiutando gli esemplari alti e irrimediabilmente frigidi del portato classicista il poeta ne rigetta insieme la pura rifrazione in minore, il ghetto dei vernacoli. Il movimento a ritroso (che gode d'una accelerazione decisiva e quasi d'un avallo psicologico con l'uscita dei Poeti del Duecento curati da Contini sul principio degli anni sessanta) lo conduce alle fonti romanze e trobadoriche, alla pienezza dei volgari, che egli rivendica esplicitamente: (...) l'assunzione del dialetto e' connessa ad una segreta identificazione della mia vicenda di intellettuale solitario ed isolato con quella degli uomini che vengono posti al margine della storia (...) il mio dialetto non corrisponde al parlato, o solo nelle sonorita' che lo fondano. E attraverso quello io risalgo a somiglianze originarie: i miei modelli sono duecenteschi».(5) Quelli d'un regime al plurale in cui non e' ancora lecito distinguere (tanto meno dedurne la gerarchia) fra rigida norma linguistica e scarto dialettale ma si possono semmai inventariare singolarita' idiomatiche, secondo l'etimo che connette all'idioma una parlata, anzi un parlare a parte. Infatti, e indipendentemente dall'uso che il poeta puo' avere fatto di questo termine nelle sue dichiarazioni, lo strumento adibito da Scataglini non e' un dialetto (peraltro in Ancona di poverissima tradizione artistica) cosi' come la sua opera non e' oggi a rigore assimilabile, se non per illusione fonica o cronologica, alla voga dei cosiddetti neodialettali: piuttosto consiste, ha notato Pier Vincenzo Mengaldo, in una sorta di variante preziosa e sperimentale, pigmentata, della lingua letteraria»(6), frutto di antichi calchi, innesti, neoformazioni (solo per eccezione di veri idiotismi) che, mentre alludono la fisicita' della voce al presente, ne rimandano l'eco secolare. Nasce dal continuo metaplasmo esercitato da quell'eco (memoria di tradizione ed alto ornamento e all'opposto sigillo di dolore e silenzio) sull'atto della pulsione verbale.

2. L'opera prima,(7) che infatti si avvale nel titolo d'un endecasillabo di Jacopo da Lentini, la si puo' valutare nella norma d'un diario lirico. I componimenti vi si dispongono secondo un ordinamento non puramente collativo ma circolare, per cosi' dire a corolla, irradiandosi da un nucleo percettivo che se da un lato appare unitario (appunto nel comporsi d'un io-lirico consueto) dall'altro ne contraddice la stabilita' a mezzo d'una frattura costantemente ribadita. Le occasioni esistenziali (che Scataglini definirebbe occorrimenti) sono sempre colte nel prodursi d'una lacerazione e danno luogo a tutta una serie di coppie oppositive (uomo/donna, giovane/vecchio, angelo/animale) in assenza d'un orizzonte di sintesi. La realta' viene sentita, specie nel tema amoroso che dovrebbe configurarsi altrimenti squisito, come caduta e visitazione del demonico: (...) e moro/ senza mori' (...)// io so' sta vita esplosa/ che su de se' ripiomba»(8); Chi `n cor mio te fa drita/ come punta de chiodo,/ in sta carne ferita/ chi me t'ha fato nodo?».(9) La figura retorica decisiva piu' che l'ossimoro (dovuto allo choc fulmineo dei semantemi) e' l'antica sineciosi, un'opposizione tensiva che pero' mantiene intatta, nella separatezza, la cogenza delle due unita' conflittuali. Quando, ad esempio, l'immagine della dolcezza evoca l'antipode dell'amarezza, l'afonia quello della voce, l'emblema della scancellatura quello della vita-scrittura. Cio' che si evince anzi si duplica per omologia nel denotato tecnico della raccolta, specie nell'assetto ritmico-sintattico: il metro (in prevalenza strofe di settenari chiusi a rime alterne) mentre sembra recuperare i modi del piu' effuso melodismo vibra in cesura sui tagli esatti del verso, in una rigida concordanza di schemi sintattici e piedi prosodici. I sospetti di cantabilita' si traducono in iscrizioni tanatologiche, gli epigrammi in epigrafi; la de'pense e l'abominio in eros (antiga obedienza) celano l'insorgenza redentrice, ancora per barlumi e visitazioni occidue, della Donna. D'una donna che divenga essa stessa poesia, vi si inveri in allegorie di salvezza e compimento: Io s' `l ciglio del mondo/ e te sei la voragine».(10)

3. La struttura di So' rimaso la spina(11) (locuzione terrigena parafrasabile in un sono rimasto come la lisca del pesce», cioe' scheletrito, essicato) evade la verticalita' ellittica, l'appiombo comunque lirico del primo libro. Le sezioni, scandite quali campiture di tableaux (blocchi tematici raccordati dall'interno), tendono a rendere espliciti, a far defluire e articolare, espressamente nominandoli, i motivi che prima si davano per condensazione, quasi risucchiati o ingorgati nella monade (che si manifestava in magica scissura) dello spasmo percettivo. Hanno nome e presenza gli archetipi parentali, rimemorati nelle fasi d'una biografia condivisa con chi e' vulnerato da oblio e insensatezza (cornice de memoria/ `ndo te scanceli te,/ madre mia senza storia»)(12); hanno contorno e rilievo i luoghi della citta' e i domestici itinerari del proprio vissuto doloroso; l'universo della brama, del cedimento al parziale della pulsione che inibisce la totalita' del senso resarcito a coscienza e parola, prende a catalizzarsi nelle figure sedimentarie e ricorrenti del carcere e del labirinto (cui si oppongono, miraggi di compostezza inattingibile e umanita' inviolata, i topoi del giardi', del brolo). Spazi storici e biologici del concentrazionario, davvero cosmici per l'ordine in cui bloccano l'esistenza, coartandola; dove il battere fondo del patema nevrotico (Scataglini lo chiamera' la primordiale tara, labirinto de paura e d'orgasmo o semplicemente el vive d'omo) si rivela nient'altro che il simmetrico riflesso interno d'una condizione storica tanto coatta da poter apparire eterna e naturale: el fondo proletario dei vocati a patimento e sparizione, di chi subisce dominio al mondo ed esproprio di se' nella cadenza d'un fato; di chi viene appunto significato nello spazio e nel tempo senza avere facolta' di potersi mai significare. Percio' la poesia di Scataglini, a questa altezza cronologica, si offre nei modi del testimoniale, verso quel che e' negato o sottratto nell'ordine dell'umano ed e' costretto ad essere esperito nelle spoglie della reificazione. Elabora il lutto d'una tragedia storica proprio in quanto antropologica, se dice di mutilazioni recate fin dentro il patrimonio psichico e affettivo. La scelta tecnica, al riguardo, prevede l'abbandono della strofe isolata; giacitura metrico-ritmica ed ordito sintattico cominciano a snodarsi lungo un fitto reticolo di enjambements pure se ancora a ritrovarsi nell'alternanza delle rime. Alla figura della sineciosi subentra, ritmata e rinforzata dall'iterazione delle inarcature, la catacresi, binarieta' contappuntistica per cui l'assonanza si squilibra e rifrange nella dissonanza quale (sono parole di Stravinsky) nuova e dolorosa armonia». La disseminazione fonica e strofica si ricompone nella misura del poemetto, dell'inno. Ed e' il caso dei due testi (Tuto e' corpo d'amore e Carcere demolito, gia' tra i massimi esiti del poeta anconetano) che chiudono in endiadi pero' fornendo una traccia direzionale antitetica, centrifuga. Nella fattispecie, il primo ha i moduli frontali e anaforici dell'antica lauda; e' un inno di lode al fenomenico, alla caotica inclusivita' dell'esistente dove nulla a priori e' rifiutabile (Tuto e' corpo d'amore/ la tera `l cielo `l pa'// (...)// Tuto e' corpo d'amore/ mischiato al bene e `l male»)(13) e tutto culmina (quanto al rigoglio del fenomenale e'ssece, l'esserci dei fenomeni) nel simultaneo splendore delle insegne salvifiche. La poesia (portato atavico, lingua dei morti) e la donna (l'albero che rifoglia ad ogni luna) nella loro pienezza intatta e annichilente: e te, dialeto caro/ che da l'infanzia sorti,/ t'ha cinguetato i morti/ su l'alto colombaro// e te, arboro mio,/ c'arfoi a tute le lune/ `nte le tue fieze brune/ io so' pedochio e dio».(14) Per contro, il secondo poemetto si ispira alla demolizione d'un carcere nella citta' vecchia. La distruzione, lasciando sul terreno eterna traccia dell'antico perimetro, non da' adito ad alcun senso di liberta' che non sia delusivo, pari alle strida di sarcasmo dei gabbiani da sempre liberi (perfetti ma ciechi) sulla reclusa razza de Cai' (progenie di Caino). Perche' la liberta', qualora non sappia trovarsi in atti di coscienza/parola, ricompare nel solo sembiante d'un fantasma reclusorio. Carcere dell'io, rito cruento e taciuto che la morte, per suprema ironia, puo' espiare, ma cancellandolo: Su `l spazio in abandono/ c'e' `l fiore de la malva./ Se `l vive non se salva/ muri' basta al perdono».(15) L'abbattimento del carcere non genera euforia dacche' rivela un deserto (Carcere demolito,/ al principio e' `l deserto»)(16), il vacuo assiderante che incombe e presiede all'umano, alla sua genesi, perfino a una palingenesi che non possa motivarsi tale. E' il luogo del dolore primordiale, tanto piu' certo quanto piu' intransitivo; dice uno stupendo distico in clausola: per me `l futuro e' muto/ come la verita'».(17)

4. Carta laniena sta a So' rimaso la spina come lo smarrirsi nel deserto, o nel dedalo, sta al suo attraversamento tramite il pedaggio d'un alto tributo di sangue (l'aggettivo del titolo contiene sia l'azione dello spezzare che la piu' feriale carta da macelleria): Fui servo de la brama/ che m'ha cegato e vinto/ fa'tase fildelama/ in fondo a labirinto».(19) Il mitema di Asterione viene ora spostato e liquidato nel fui, il tempo del perfetto, dell'azione affidata all'altrove nello spazio-tempo. Chi scrive guarda al sacrificio dalla riva d'un approdo, da una salvezza in qualche modo gia' posseduta. (Ne' forse sara' illecito aggiungere che il libro terzo di Scataglini esce a conclusione d'un personale lavoro nel setting psicoanalitico, la cui intrapresa data grosso modo alla stampa del volume precedente). Sventai come `na cesta»(20) e quando ogni sole falla/ come un lume d'interno/ fulminato» sono stilemi leggibili alla stregua di correlativi, visto che una figura sintagmatica profonda permette ora il convertirsi del parziale in un totale, della pulsione nell'agnizione del senso (equivalente per la prima volta ad abreazione, cioe' flusso d'una parola cognita e protetta). Le icone dello sbando (il buio interno del dolore confuso, lo squallore della marginalita') evolvono nell'area semantica del salvamento, pia' in salvo; il bucranio gessato che fa da sinistro oroscopo al poemetto eponimo puo' attivare le piane parole de mestiere che riconoscono (e a tutte lettere battezzano) le occasioni del mondo. Il fondamento sintagmatico di cui sopra, costituisce infatti l'allegoria d'un transito che va dalla caduta alla grazia, dalla parola indotta e rimordente alla parola liberata. Se la piu' parte dell'esistenzialismo lirico contemporaneo riconduce la storia a natura (la natura naturata da cui ridondano interi cataloghi dell'opacita' post-montaliana) Scataglini coglie la natura come storia (il deserto di frantumi da cui muove la natura naturans, la peripezia dell'io, dentro e fuori di se', che attinge identita' e verita' riscattando le spoliazioni prima figurate nel carcere e nel labirinto). Ma solo la natura seconda» pertiene intera alla vita, l'altra tradisce invece l'insediarsi e il camuffarsi della morte entro la vita. L'immagine ossessiva del bucranio dice la contraffazione estrema del vivere deietto e sprecato, ponendosi del resto come facies, secondo l'intenzione che le conferiva Walter Benjamin (E' la morte che piu' profondamente scava la merlettata linea di demarcazione tra la phisis e il significato. Ma se la natura e' da sempre in balia della morte, essa e' da sempre anche allegorica. Cosi' il significato e la morte sono maturi a compenetrarsi intimamente nello sviluppo storico come, in forma di germi, nello stato di peccato e' disertato dalla grazia della creatura»)(22) e che il poeta tiene a rivendicare in accenti che peraltro sottolineano una totale estraneita' riguardo alla tradizione del moderno, di prevalente ascendenza simbolista: la mia e' una poesia della figuralita' allegorica, non dell'analogia. La metafora in me non ha rilevanza».(23) L'intento di Carta laniena e' apprezzabile nel progressivo abbandono della formulistica lirica (si pensi di rimando ai poemetti dell'altra raccolta, ancora metricamente stabili e scanditi dalla strofe chiusa) verso schietti risultati epico-lirici (parlerei di epica leggera, nel senso di lieve, lievitante; un'epica [...] che sconfina appena possibile nella lirica»(24) ha potuto scrivere Antonio Porta). sono polimetri d'andatura franta e ablativa, dove la dissonanza fa largo premio, ormai, sulle armoniche della consonanza; cosi' infittiscono le pause e le ellissi devolvono al bianco tipografico, mentre la miscela linguistica, quasi dismettendo le punte idiomatiche, accentua i ricalchi e il tratto neolatino. Vi assume ancora gran valore segnaletico la dispositio dei poemetti di piu' ricca e complessa stesura, quando l'indice direzionale sembra ancora una volta antitetico. Da una parte, il componimento che da' il titolo, in cui il poeta chiama abreva (ebrea) la sua angoscia, proiettando e ritrovando l'ombra del mattatoio (presagio e nero nume d'infanzia) nel popolo della diaspora, scoprendosi vecchio e inabile alla parola viva, appena capace di pochi dolorosi colpi di glottide di fronte al terebrante della verita': Tuta t'ha traversata/ stanote, via de morte,/ vita, la bandonata/ de vechio ombra de sorte// con el glu glu de gola/ da verso de picioni/ - aborti de parola/ `ntra sordi cornicioni,/»;(25) dall'altra, Philodemon, graffito d'un oscuro e indifferente ciclo naturale (le parole-chiave di letizia e sevizia vi possono rimare) che ripete in enigma la sorte di Pier Paolo Pasolini: la morte quale inesorabile indotto della perversione, qui intesa nel significato primo d'uno spasimo della conoscenza che nel moto di dirigersi al mondo viene sottratta e taciuta a se' (cupo delirio della pulsione che implodendo si eccede nello squartamento fisico). Una stridente collusione che parrebbe allora ribadire anche l'explicit della raccolta anteriore, quasi che la traccia dell'attraversamento si spezzasse proprio nell'attimo della fuoruscita e alla fine il deserto allucinasse altro deserto. Ma Explumeor, il testo terminale, funge da cuspide, triangola la direttrice del senso: da `n altanino, spia/ (stro'ligo) l'energia/ dei mondi che serena/ ponde sui teti,/ fogo/ de trapunti sul blu,/ come el desi'o che fu/ e artorna necesario/ a ogni logo de l'esse:/».(26) La pulsione sottratta allo spreco ha finalmente nome d'energia che intrama e vitalizza gli esseri, necessaria perche' a loro consustanziale. La parola che la innesca, pure scaturendo dal frammento piu' indigente dell'esistere, e' un segno riconciliato. Miniatura del compimento, pari alla promessa di mutazione che annuncia il paradiso dei provenzali.

5. I testi di laudario, (27) che Scataglini, rinunciando ad una loro autonoma pubblicazione, fa uscire nell'ultima parte del Rimario agontano (consapevole della circolarita' iscritta nel suo percorso d'autore) tematizzano i motivi dell'approdo, tra il riconoscimento dell'energia inestinguibile che presuppone la vita (la vita e' piu' antiga/ rispeto a la mente»)(28) e della ciclica estinzione perpetuata negli esseri (quando essa saturandoli, li disfa): e l'azzuro/ gelava la forma/ dei siti, al sussuro/ del niente c'artorna»).(29) Si entra in Laudario come dentro uno stormire di presenze prossime e remote, che e' impossibile decidere appartengano all'hic-et-nunc del vivo sentire o alla distanza del rammemorare. La leggerezza musaica dei poemetti (l'aerea liberta' con cui connettono i verosimili frantumi d'una vita e li traguardano di la' dalla vita: i ricordi d'infanzia e di guerra, l'apparizione di un fratello morto, la donna-musa che s'incarna nel nome d'una rosa) va oltre ogni usuale partitura retorica; piu' spesso contenuta in lievi strofe di senari chiusi, utilizza una libera inventiva musicale. (E giusto ai musicalissimi ricercari si intitola una sezione). Brevini ne fornisce la seguente disamina: oggettivazione totale e sintassi sempre piu' ellittica, affidata a cortocircuiti quasi onirici, risultano i caratteri piu' evidenti di questa poesia, che sembra incrementare la sua frammentarieta', come di enigmatici reperti scampati ad una catastrofe».(30) Ma non puo' essere piu' frammento laddove tutto e' frammentato, laddove dunque non esiste piu' iato fra prima e dopo, vicino e lontano, vita e morte. Se la verita' degli esseri coincide col loro compimento (nella morte quale ultimo fissaggio d'energia) allora le parole aggallano come acmi d'un continuum non piu' perimetrabile. I poemetti di Laudario non paiono avere sintassi convenuta perche' il caos che sommuove l'essere conosce solo mediazioni parziali (Corre ogni atto al confine/ che da' forma al suo estingue»).(31) Altro parziale, il parziale della parola. Che colmano il suo limite e la smemoratezza del nulla da cui procede fonda l'unica totalita' cui puo' in effetti avere accesso, quella del senso. Negazione d'una negazione, di chi dice da niente a niente, da deserto a deserto. Muri' de compimento: l'essere per la morte che istituisce tanta metafisica esistenzialista (e il sublime d'un io legiferante, garante del discrimine fra autentico e inautentico) si trasforma nell'essere della morte. L'intermittenza (l'ignoto pulsare in quei frammenti) del se' che trova nel continuo d'energia il discontinuo della mortalita': il ciclico metaplasmo del nulla sull'essere che gia' poneva la scelta linguistica di Franco Scataglini e appunto ne cifrava, entro un codice genetico, la strategia del senso.

6. La medesima istanza che accoglie nell'esserci tracce del quotidiano e del siderale, consentendone la conciliazione in una zona franca (atopica e acronica) fra storia e natura, le ridispone affidandole agli intarsi d'una palese sequenza allegorica ne La Rosa,(32) lungo poema redatto fra l'87 e l'89. Parrebbe la versione d'un primo squarcio del Roman de la Rose di Guillaume de Lorris (e cio' e' sembrata in avvio all'autore stesso, che vi mise mano pensando a un rifacimento). Il dispositivo d'intreccio e' all'incirca combaciante: il sogno del protagonista e il suo levarsi insugnando (str. 1-11); l'apparizione del giardino e la descrizione delle figure istoriate sul muro di cinta: i vizi e i tormenti del vivere (str. 12-49); la musica del verziere e il pedinamento del protagonista da parte d'Amore (str. 145-159); la fonte di Narciso e i globi rispecchianti la bellezza del creato (str. 160-178); l'apparizione della Rosa e il gesto del coglierla proprio nell'attimo in cui Amore incocca la sua freccia (str. 179-186). Ma non si tratta d'un rifacimento o d'un pastiche, come potrebbe suggerire il tenace e antico amore di Scataglini per la letteratura delle origini; meno che mai d'una versione, vista l'assoluta liberta' che emancipa il poeta rispetto ad un ipotetico testo a fronte sia in sede prosodica (sono strofe di dieci settenari nuovamente stabili, rimati secondo schema AA-BB-CC-DD-EE) sia in ambito lessicale e sintattico (dove innumerevoli risultano i tagli, le inserzioni e le innovazioni per il recupero estensivo della gamma idiomatica). Posto che l'allegoria e' il mezzo tipico di Scataglini, qui si puo' senz'altro parlare di allegoria d'un'allegoria: io che traduco el sogno/ de un poema e risogno/ da desto quel sogna'» (str. 16, vv.1-4). Figura di figura, sogno d'un sogno. Quelli del giardino e della rosa si confermano riferimenti figurali primari: nel primo (la povera cura d'un orto) prendeva forma la denegata liberta' degli esclusi (fin dal volume d'esordio: (...) e pe' non mori'/ muto com'eri stato,/ m'hai lasciato un giardi'»);(33) nel secondo il corpo glorioso dell'amata schiudeva l'arcano stesso della poesia (o ragazzeta/ Rosa avampata!...»).(34) Due nuclei superstiti alla parabola che si compie in Laudario, e adesso proiettati dall'asse paradigmatico su quello sintagmatico della figuralita': la vicenda (poco importa se sogno, visione, excessus mentis) d'un io che trascorrendo fra le morte effigi del male'dico accede al luogo elettivo del valore, l'Eden in cui riposa e ha senso definitivo la ricchezza del mondo, la sua bellezza incorruttibile (era idea ed era cosa/ quel bociolo de rosa» str. 183, vv. 9-10); dove spazio e tempo prima obliterati nell'ingorgo di storia e natura tornano puri fondali (fabula e plot) della parola pervenuta a destino. Quando il cogliere la rosa e l'incoccarsi della freccia (d'amoroso gastigo-/ se fermo' soto a un figo/ e incoco' una quadrella/ ...», str.186) s'annunciano e chiudono, evanescendo, il poema del poeta' beante, in una eternita' d'istante che li fa vivi e ormai perenti per necessaria sovrabbondanza d'essere.

_____________________

1. F. Scataglini, E per un frutto piace tutto un orto, pref. di P. Acquabona, L'astrogallo, 1973.

2. F. Scataglini, Echi, Ancona , ATA, 1950.

3. Marka», n. 6-7, 1983, pp. 138-139.

4. Corriere Adriatico», 23/2/1990.

5. Diverse Lingue», n. 1-2, 1986, pp. 27-31.

6. Corriere del Ticino», 17/10/1987.

7. E per un frutto ...: poi (e cosi' per le raccolte successive) nella ricca antologia: F. Scataglini, Rimario agontano (1968-1986), a cura di F. Brevini, Milano, Scheiwiller, 1987.

8. Rimario ..., p. 41.

9. Ibid., p. 28.

10. Ibid., p. 42.

11. F. Scataglini, So' rimaso la spina, introd. di C. Betocchi, Ancona, L'Astrogallo, 1977.

12. Rimario ..., p. 53.

13. Ibid., pp. 78-79.

14. Ibid., pp. 79-80.

15. Ibid., p. 73.

16. Ibid., p. 75.

17. Ibid., p. 68.

18. F. Scataglini Carta laniena, pref. di F. Scarabicchi, post. e glossario di M. Raffaeli, Ancona, Residenza, 1982.

19. Rimario ..., p. 91.

20. Ibid., p. 87.

21. Ibid., p. 113.

22. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Torino, Einaudi, 1963: il passo e' ripreso da Scataglini nell'intervista in Poesia», n. 2, 1989, p. 15.

23. Ibid.

24. Corriere della sera», 10/7/1988.

25. Rimario..., p. 128.

26. Ibid., p. 143.

27. Ibid., pp. 147-221.

28. Ibid., p. 193.

29. Ibid., p. 195.

30. Introduzione a Rimario ..., p. 17.

31. Rimario ..., p. 207.

32. F. Troncarelli Il giardino muto. Il sogno del Medioevo nella poesia di Franco Scataglini, Quaderni Medievali», n. 28, 1989: il saggio reca in appendice l'incipit del poema (vv. 1-150). Chi scrive ha potuto disporre, grazie alla cortesia dell'autore, della versione integrale approntata per la stampa che si annuncia imminente presso Einaudi.

33. Rimario ..., p. 31.

34. Ibid., p. 214.

 

__________

di Massimo Raffaeli sulla Rivista "Idra", anno II, n° 3, Genova 1991