Postfazione di Massimo Raffaeli

 

Le parole, e il senso

1. Testimoniare la poesia di Franco Scataglini implica innanzitutto uno sguardo alla topografia in cui essa va a iscriversi. Non e' un luogo canonico, gia' rubricato nella guida delle rotabili della cultura dominante (luoghi di barbarie autentica, della mutilazione e sfigurazione individuale al prezzo di inopinate visite del senso, quando trova il modo di riconoscersi nel giro usuale delle parole). E' un luogo suo e solo suo, ma che a tutti e' dato di riconoscere. Assomiglia a uno di quei giardinetti, o broletti direbbe lui con preciso arcaismo, chiusi da pietre mattoni e muschi, dove durano splendide e semiclandestine piante domestiche. La gialla dalia che eccede la muta opacita' delle pietre, quando la luce che si respira intorno vive un attimo assoluto, e gia' smuore nell'ombra e nel freddo. Questo per dire che la poesia di Scataglini (al culmine il presente volume) risiede in una zona di margine, e parla
una lingua motivata dall'interno, dono esclusivo del suo essere e partecipare il mondo.
Non e' frutto di alcuna lambiccata intellettualistica ibridazione, e al riguardo sarebbe imbarazzante evocare l'idioletto se e' vero che si offre come reciproca degli stati interni che esprime. Definirla e' terribilmente rischioso: da un lato rifiuta l'italiano dell'Abuso convenzionale, e dall'altro il dialetto della greve martellatura mimico-becera. Scataglini sa leggervi le franchigie e insieme le stimmate da ghetto, due opposti modi di ostentare una calligrafia. O di servire due ipostasi irrigidite. E' un poeta colto, capace di annodare gli amatissimi Giotti e Noventa con gli esempi piu' divaricati (un Bonvensin, un Brizio Visconti) della filologia romanza, ma come per paradosso mette in crisi la sua stessa memoria culturale: ha in orrore ogni truvaille manierista, cioe' quel che prima non abbia tentato l'energia vibratile del se'.
Nulla di quel che siamo avvezzi a chiamare letterario nei sedimenti emozionali che e' capace di suscitare: rinvia invece ad una parola scabra e definitiva, trovata volta a volta nell'ascolto cosciente di se' (del se', appunto). Una parola che a definirla coi soli strumenti tecnici condurrebbe alle aporie di alto/basso, colto/plebeo ecc. trascurando l'esperienza primaria: nome e nume, percezione dell'esterno e relativa sensazione all'interno coincidono come due valve solidali; infatti ecco un repertorio di mozioni e figure di senso, vivide nella luce che si scocca quando la sagoma grossa della realta' puo' accedere al ricomposto fantasma secreto dello scrigno dell'inconscio. E' tale la luce colma di rifrazioni, eppure mai fungibile, a indicare il versus, l'intenzione del senso. Dice i nomi basali dell'esistenza, la gioia, il dolore, la vita esplosa e la morte, fertilita' e siccita', cogliendoli nel loro ciclo trascorrente; e li traccia dentro una fissita' o una nettezza che si direbbe ipnotica tanto rabbrividisce al calor bianco dell'espressione. Appena qualche venatura meticcia (odorosa muffa condensata in laboratorio) e poi solo il naturale privilegio della nominazione: la cosa che si anima mentre viene detta, il rottame che torna a brillare dopo che l'ostinata fatica del fiato glia ha sottratto l'ossido. la pienezza esistenziale ritrovata nella distesa significazione delle parole; le piane parole de mestiere che scandiscono e alla lettera battezzano le occasioni del mondo.

2. C'e' un segno adibito a nucleo simbolico che inaugura e va a toccare il centro pulsante della raccolta: il minotauro del componimento iniziale che si metamorfosa nel bucranio gessato del poemetto eponimo. Un sigillo d'autore, la greca sfraghi's che dirime complesse questione attributive, ma non solo questo. Le mandibole adunche quali forcipi, e le fonde orbite sbuzzate; la valenza tanatologica del reperto esprime il tributo di sangue corrisposto alla vita deietta, rimemora un destino di sconfitta e avvilimento, e sofferenza muta. I ricordi del minotauro e del labirinto assurgono a figura sintagmatica centrale. Vi si catalizzano le stazioni di un doloroso transito purgatoriale. Il labirinto della brama, e il suo attraversamento. La poesia di Scataglini tiene iscritta dentro la bestiale cogenza della pulsione; l'inconscio e coattivo stimolo che asserve e dilapida la vita, mentre l'essere e' visitato da forze ctonie che non sa placare. Esso viene disseccato e si perde nel parziale della pulsione: appunto, i segmenti irrelati, e in assenza d'orizzonte di uscita, nell'artificio dedalico. Essere agiti senza piu' nemmeno la nostalgia di poter agire. Occorrono cosi' nei testi figure struggenti, recuperate alla dispersione nell'indistinto da una parola capace di coniugare frammento biografico e destino, di interrogarne la ricchezza irrepetibile, o soltanto di stenografare un'anima da un'occhiaia sgualcita. Vite portate a morire, deprivate della coscienza e della facolta' verbale, come nella falotica valletta dei perduti nella chiusa di Carta laniena. Vi ridonda una disperante fedelta' all'universo creaturale (a patto di non confonderla col gusto sottile del nativo) mentre si spendono vita e senso, il sangue e le ragioni del cuore.
Il mattatoio, il bancone del beccaio, gelidi interni dove intristire e abbuiarsi, luoghi di perdite immedicabili: strage feriale, per cui il plasma svenato cola e rapprende transustanziato in neve. Oppure epifanie quotidiane il cui effettivo riconoscimento fallisce, o va trascurato. Spesa, de'pense, perdita, indicano una remota sorgiva dell'ispirazione, e del resto Scataglini e' stato un precoce glossatore di Reich e Bataille nel pensiero dei quali ha potuto conservare semi poi maturati a fragranza di parole espresse. Che costituiscono il recupero di un deragliamento anteriore, pagato col rigore assoluto del lavoro e con la messa in opera di se' fino alle piu' riposte fibre microbiologiche, per giungere a una intatta squisitezza musaica che vibra e tocca il lettore mentre gli si dona. Lo tenta (secondo etimologia) cioe' va a sfiorare quel nucleo interiore, di serica luminosita', per cui ci si rallegra, ci si commuove, si medita, si prova pena. La motivazione profonda della poesia di Scataglini consiste in questo straordinario incremento antropologico.

3. Nella sezione centrale del libro la figura di un senso (un percorso esistenziale e poetico insieme) viene avanzata differenzialmente attraverso l'accostamento di due poemetti (Carta laniena e Philodemon, di alta datazione e frutto entrambi di tormentate stesure) dove ne risalta la dissonanza costitutiva.
Philodemon restituisce in cifra la tragica fine di Pier Paolo Pasolini; sono tre movimenti cesurati, ma tenuti insieme dall'incontro anfibio di compiutezza naturale e parzialita' pulsionale: la seppia smangiata dal delfino e subito affidata al perenne assenso della risacca; il germe di vita che nonostante si replica nel pero stecchito, in fondo all'autunno; lo squartamento fisico lasciato intendere in una lurida brughiera suburbana, sotto un cielo opaco.
Muore chi non si sa, chi serve un'impellenza nera, una torbida acquosa deriva del cuore: e c'e' sempre un giuda disponibile, distratto fino alla casualita', per chi tradisce tradendo se stesso. L'esercizio della conoscenza, rivolto al mondo quando viene sottratto a se', incontra la massima e sia pure nobilissima forma peccaminosa, tout court la perversione. D'altro canto Carta laniena, da cui affiorano parchi indizi autobiografici, dice il vittorioso attraversamento della pulsione, il risillabarla dentro le acquisizioni della coscienza. Afferma la vita predestinata a morte, spesso una tragedia votata all'insignificanza; la riconosce intangibile, esclusivo paradigma del sacro. C'e' uno stacco nel tempo terzo, dopo l'assunzione allegorica della fisionomia infantile e ebrea: che cosa sono infatti quelle violacee interiezioni luminose che si trasmettono all'angoscia abreva, se non i segni della conoscenza resarcita, proiettata una volta per tutte nel profondo? La parola abortita e conquistata si configura evento salvifico, che orienta nel nuovo cammino, difficile e ciclicamente investito dal flusso delle maree. Sbando, naufragio sono termini chiave, cosi' come per converso salvamento, pia' in salvo: esistono momenti in cui l'essere si fa inerte, puo' perdersi; lo salva e percio' lo fa nuovo un verbo ricco di risonanze, di grazia traslucida fatta opalescente per il riverbero colto nella coscienza. Allora le parole, sotto la loro tenera dolcemente effusa patina, diventano apotropie, forme della liceita' naturale, ringraziamento.

4. E le armature innocenti della sezione omonima presentano una pronuncia ambigua, strettamente anfibologica: additano i tubolari che alzano i cantieri e anche l'inoffensiva (ma non per questo meno robusta) ristrutturazione della coscienza. Sotto l'ardore siderale faticano gli uomini della scuola psicoanalitica di Maya Liebl. Intanto va sottolineata la valenza, euristica, esperitiva, dell'espressione: Scataglini chiama in causa, per riferirlo a una personale intrapresa, un lavoro fondato sul qui-e-ora dell'accadimento. I nuovi carpentieri dell'anima sono gli analisti della scuola, fra i quali un maestro che a pieno suffragio viene nominato nella dedica. L'analisi e' infatti la condizione o meglio ancora lo spazio ambiente della poesia di Scataglini, come luogo primario di consapevolezza, di coscienza in grado di autenticarsi. In quanto tale essa e' ineffabile; piuttosto serve a mettere in moto quell'energia creativa che poi trova concreta fattura nel trattamento linguistico-stilistico dei testi. Libera energie e le mette a disposizione di un particolare talento. Cosi' una alla volta affiorano dal profondo esperienze verbali recuperate quali modi specifici dell'essere; fluttuano, oscillando fra suono attuale e memoria del loro calco arcaico, si dispongono a un senso.
L'ansito gonfio d'un piccione (glu glu de gola) esprime bene la pena, e l'intermittente precisarsi d'una voce che perviene a coscienza. La voce oltrepassa un ricordo di sassi e cenere, dentro ne tiene la melancolia: prima c'era un carcere, che e' stato demolito. Il carcere della nevrosi dove ogni giorno l'inconsapevolezza replica un cruento rito testimoniale. Un martirio. Quel carcere non esiste piu': ora un uomo costruisce per quello che e', che sa, che sente. Si riconosce nell'ordine degli affetti di cui e' portatore; si manifesta nell'obbedienza e nella fedelta' ad essi. Una singola vocazione chiede di essere adempiuta. Una no'va edilizia ha progetato el co're.

5. La poesia di Scataglini si da' nell'ascolto portato all'interno (nel se' che si significa mentre significa gli eventi) di voci, presenze, luoghi. Nella durata, che non e' mai tempo convenzionale, che trascorre tra il dittar dentro e l'andar significando, dove e' propriamente un reticolo di rari affetti ad instaurarne l'immanenza. Il bianco sporco di rosa dei gabbiani; il grigio di un'acqua morta; le tinte forti e grottesche dell'onirico; l'oro di un viso sorridente e il nero luttuoso di un titolo di giornale. Gli accadimenti, una volta introiettati, sono tessere cromatiche composte a mosaico. La somma dei colori e' la ricchezza del mondo, appunto passata attraverso l'irriducibile esperienza di se' nel mondo. Contano le sfumature, passaggi delicati come trasalimenti, se e' vero che c'e' sempre una lieve caligine a schermare l'onnipotenza della luce. L'esserci, l'essere presenti a se stessi, modi dell'esistenza che si indentano l'uno all'altro e ritmano un destino... forme de l'esistenza/comune, dolce modo,/sgramate a la violenza/come intonaco a chiodo... Colte in verticale, pregne del senso di cui le investe l'accidentato progresso della coscienza; salvaguardate come reliquie nella loro inerme naturalezza da uno stile cosi' essenziale da alludere talvolta all'iscrizione, all'epigrafe; fatte anonime, cioe' tanto piu' universali e partecipabili quanto piu' individualmente marcate. Parole disponibili a quella sillabazione interiore che sola le garantisce dalle seduzioni e dalle brutali intrusioni del caos; parole appropriate (perche' relazionate a dati riconoscibili) ma distese in effetti d'eco e risonanze profonde, preziose pari al miracolo della luna nascente che intorno diffonde albori di madreperla. Scataglini parla le parole della residenza; infatti produce senso (lo invera senza ulteriori mediazioni) nel luogo in cui l'esperienza vitale lo segna, indipendentemente dal livello di consacrazione che il medesimo luogo attinge nelle gerarchie dell'accademia, o della pratica geopolitica: i coaguli dell'invarianza esistenziale liberati dalla occlusione, che resistono oltre le mutevoli contraffazioni dell'identita' storica. Quel grumo di sensazioni, sentimenti, affetti capaci di illimpidirsi e trovare equilibrio in una struttura testuale, cioe' di testimoniare una verita'. Al lettore chiede udienza fuori dai canali della comunicazione preconfezionata, un ascolto dentro al tempo reale (inconsumabile) della coscienza.

6. Ne' lingua ne' dialetto, si diceva all'inizio; l'impossibilita' di classificare questa poesia coi parametri del gia' detto e scontato. Si tratta di una scrittura, cavata fuori dai vincoli incrociati dell'alta tradizione monodica e del linguaggio basico riscontrabile in una categoria di parlanti (o exparlanti) sociologicamente determinata. Nasce sullo stretto crinale che discrimina i due versanti; e li' si innerva. Una scrittura originale, trapuntata da scarti lessicali fitti come aculei (e poco importa se presi a prestito, col solo criterio della funzionalita', ora dal serbatoio della poesia romanza ora da glossari in disuso dell'artigianato e della marineria locale). Gli aculei serbano la puntuta insorgenza della trasgressione, rispetto a una norma che equivale all'assetto illusoriamente pacificato del senso e dell'atteggiamento comune. Il poeta in persona ha voluto una volta riferire alla sua poesia la metafora eliotiana del fico d'india, evadendone la configurazione perversa: una pianta di vaga sagomatura fallica che cresce nel deserto, dove la bellezza dei fiori e la dolcezza dei frutti fa premio su un ispido rivestimento. Cosi' le points lessicali funzionano in una giacitura ritmica stabile, chiusa a cerniera dalla grafia delle strofette metastasiane. In perfetto equilibrio, nel dosaggio delle pause, dei bianchi tipografici, d'un'iconologia retorica che va colta nella segreta intramatura per poterla affidare allo spazio energetico del se' che percepisce, sente, lavora. Davvero se ne puo' dire come di quei fiori finti tanto belli da sembrare veri e viveceversa. E vero da l'esse finto suona l'ultimo verso di Paganelli, che all'occorrenza si parafrasa in un diventato vero per colmo della finzione».
La realta' in quanto tale non esiste, a meno di costruirla mediante una strategia del senso che scaturisce dalla collusione di dentro» e fuori», reciproche superfici adesive d'ogni evento condotto a consapevolezza. Nella fattispecie, la trasgressione linguistica e' il mezzo con cui si nega l'ingorgo pulsionale (il mondo del parziale, dello scisso). Negazione di una negazione, nei termini della dialettica classica, da cui procede la messa in atto di una totalita': quando il massimo dell'artificio (leggi il testo concluso) raggiunge il massimo della naturalezza. Pone la totalita' del senso. Qualcosa che prima non c'era nasce al mondo, entra a farne parte, porta il pulsare della creazione, anela a chi sappia essere riconoscente.