Un'oscura pittura popolare

Quando lessi La meglio gioventu' subito pensai che con i versi in exergo di Peire Vidal (ab l'alen tir vas me l'aire/qu'ieu sen venir de Proensa:/tot quant' es de lai m'agensa...) Pasolini avesse dato una chiave di lettura: qui non e' questione di dialetto ma di lingua morta, la sola che possa ancora parlare. Del resto lo Spirito romanzo era il luogo poundiano da me piu' frequentato. E in un libretto stampato da Fussi avevo trovato Vers di Jaufre Rudel. Non era difficile cogliere in Pasolini echi linguistici di una poesia prestigiosa e remota: ...Mi soi dit Narcis»!/E un spirt cu'l me vis/al scuriva la erba/cu'l dai so ris.
A partire da queste suggestioni, diventate primarie in una personale vicenda di scrittura, tentai di rintracciare nella tradizione regionale e nei suoi pochi e derelitti monumenti di versificazione vernacolare un'eco riconducibile a quelle auroralita', fossero pure annidate nei recessi fonemici delle parole dove, talora, un suono e' subito il senso.
Scovai in Biblioteca comunale un poeta marchigiano del Cinquecento, Olimpo Baldassarre degli Alessandri, noto come Olimpo da Sassoferrato: Quando se fa piu' oscura/la notte, per me cresce piu' el diletto:/io me ne vo soletto/cercando se trovar posso ventura./Allor ch'ad altri el sonno el veder fura/ne vo piano e legier senza far strepito/a pie' la bella porta/dove madonna, accorta,/aspetta me per far meco el mio debito:/e quando fo cenno e picchio modo/ch'ella apre, altri non sente e io la godo.
La superficie significante e' attraversata da una corrente di dialettalita' sottesa, cio' che da' al petrarchismo dei suoi versi la nuance che costituiva, e costituisce, la sua cifra piu' interessante.

Da quella scoperta letteraria il pittore in minore» che e' in me, che si era inventato le sue fabbrili procedure sugli appunti della Teoria della figurazione e della forma e negli acquerelli de L'interregno, si chiese se non fosse possibile trovare anche nella pittura marchigiana identici o simili caratteri. Pensavo, ad esempio, che la dialettalita' - in termini pittorici - potesse rintracciarsi, almeno come climax, negli ex- voto di tante piccole chiese sparse nell'entroterra rurale delle colline marchigiane (quell'universo di fanie miracolanti votato all'edificazione dei semplici).
Cercavo di immaginare l'incontro di un'oscura corrente pittorica popolare con quella illustre delle forme tanto puntualmente conseguite e significate da chiudere, nel proprio istoriato reticolo, il sentimento stesso dell'essere nella storicita' dell'opera. Questo era gia' accaduto nella grande stagione romanica ma in quel tempo tutto era dialettalita' al suo momento sorgivo: nascevano isole idiomatiche (verbali e non) che contenevano granuli salvati di universalita' classica. Un incanto irrepetibile.
Cominciai cosi' a frequentare la Pinacoteca di Ancona, che allora si trovava nel Palazzo degli Anziani, un edificio maestoso cui aveva messo mano, secondo il Vasari, Margherito d'Arezzo. Quella facciata, di cui si raccapezzano pochi tratti dopo le trasformazioni secentesche, aveva, nelle lunette, una serie di sculture figurate attribuite all'Aretino, che svolgevano, dice il Vasari, una storia del testamento vecchio». Altre lastre scolpite si trovavano, e si trovano ancora, incastrate nella parete in alto tra una finestra e l'altra a formare, tutte insieme, quelle in sito e quelle esposte in Pinacoteca, una sequela iconografica delle prime storie bibliche. Elementare e potente, la lastra che rappresenta l'uccisione di Abele: tra due busti di Profeti, estranei alla scena, Caino, curvo, spinge con determinata, brutale dolcezza la testa del fratello contro una pietra brandendo il randello omicida (il privilegio di essere Abele si sconta a bastonate). Di Margherito io avevo gia' visto, nelle riproduzioni dello Skira, la Madonna col Bambino. Il lungo viso di Maria, accentuato dalle cromie sovraccariche della stampa, sembrava dipinto da un anonimo decoratore di carri contadini (pupe di biroccio si dicono da noi quelle figure). Ma quel particolare, al centro di un'aurea campitura suddivisa in riquadri di scene graficamente vivaci, dai colori lussuosi, diventava straordinariamente espressivo. Una mandorla dal fiorito profilo racchiudeva la sacra (ed edipica) diade.
Questo pittore, nel libro dello Skira, veniva ribattezzato Margheritone (dove l'accrescitivo suonava come un gergale segno di sublime ordinarieta': un omone ispirato, toccato dalla magia del talento, ma sempre omone, insino nel suo stile).

Non possiedo ne' la scienza dello studioso ne' la perizia del mercante. Lo scrittore di versi, anche se dipinge, sta sempre sul margine: guarda il quadro con impazienza sfuggendo alla plenarieta' della superficie: e' un dettaglio che fissa la sua attenzione, l'improvvisa insorgenza di un senso. Bastava a Mallarme' il rosso di un calzone di zuavo per costruire l'aliena architettura di quella percezione emotiva. Basta un rametto di fico, al centro di una pala tizianesca - La vergine col Bambino, San Francesco, Sant'Alvise e il Donatore, che e' il vanto della Pinacoteca d'Ancona - per seguire, al di la' della mistica rappresentazione, il filo gentile dell'esserci, il corredo naturale del soggiornare umano: animali, piante, pietre: cio' che ci ha preceduto nel tempo e chi i nostri manufatti a poco a poco cancellano.
Chi scrive versi e' sospeso sull'imminenza: come se tutto, d'improvviso, potesse dirsi; quadro, finestra, strada. Di visita in visita questo si chiariva al mio pensiero: le ascendenze che cercavo di ravvisare erano dappertutto e in ogni tempo. Anche l'opera stilisticamente impervia cela e mostra ad un tempo il trasparire, nell'unita', di cio' che e' alto e di cio' che e' basso. Agli occhi dell'eternita', cui la forma conclusa allude, tra un superbo ed un misero, tra un giusto ed un assassino, non c'e' alcuna accertabile differenza.
L'opera d'arte e' utopica per statuto e definizione: anche in questa mia Pinacoteca, per molti aspetti marginale, depauperata dalla guerra, forse povera, con le sue rarissime gemme (una Madonna di Carlo Crivelli, soprattutto: una miniatura persino, con i porri del cetriolo, il colore maturante delle mele, e il libretto delle preghiere, con i rossi nastrini segnapagine: l'intemporale stesura del nouminoso sotto al delicato pigmento) sta li' a ripeterlo ogni volta.

C'e' una veduta di Ancona di Andrea Lilli: l'osservatore viene situato dalla parte del mare, rivolto alla citta': segue la scia di una nave che a vele spiegate naviga verso il porto. Tra svolazzi di nubi alte si schiude il fronte delle case e dei palazzi: il Guasco solenne, alla sinistra di chi guarda. Si vede da questo slancio a Oriente del gomito della costa il destino della citta', il suo lungo adulterio con Bisanzio. Il quadro, nonostante il centrale sprigionarsi della luce, ponde come un sarcofago. Ancona stessa sembra una citta' morta. La pittura del Lilli attrae ed allontana: inquieta, sensuale, androgina: un'androginia che distilla avvelenati languori. Cristi troppo corporei, dai fianchi lisci e tondi, quasi ingialliti sulla croce come tumefatte foglie.
Il significato tardo-manieristico dell'insistita dinamica dei corpi, combinata con evidenti effetti di luce e pastosita' di un colore mortificato, riesce ancora perfettamente in chiave, per l'introspettiva stanchezza, con la tipica spiritualita' dell'artista. Certamente la sola spiritualita' possibile nell'orizzonte soffocato ed apologetico della Controriforma. C'e' nei suoi quadri un'intrinseca disposizione al grigio. Per me, la sola possibile risonanza fraterna.
Del concittadino Francesco Podesti ho condiviso piu' di un secolo dopo il plebeo rione dell'Astagno e proprio nella via che reca il suo nome. C'era la casetta della sua nascita, in un breve androne: la ricordo composta, con una finestrella quadrata. La sua opera mi ha sempre lasciato indifferente; pero' scoprii, nella stanza piu' alta della vecchia sede della Pinacoteca, una serie di suoi disegni a carboncino, con lumeggiature a gesso, dedicati ai giuochi di succinte fanciulle (le prosperose belle marchigiane, avrebbe detto Betocchi): il salto della corda, l'altalena, il gioco del tamburello, il tiro dell'arco, i girotondo, il giuoco del toccamuro, il giuoco dello scappagatto. Uno sguardo maturo, e percio' goloso, sullo spettacolo di una lucida adolescenza. In uno dei disegni, la piu' acerbetta delle fanciulle cinge una sua compagna premendole il piccolo seno nudo contro la spalla (la seduzione femminile e' per se stessa).

Vi sono opere elettive, maggiori o minime, nella storia della pittura che finiscono per fare della memoria la lanterna magica di un educato immaginario. Tra noi e le entita' fattuali del mondo viene insinuandosi un caleidoscopio in cui si scompongono e ricompongono variegate orditure simili a quelle delle vetrate che, nelle antiche penombre, colorano il neutro fluire della luce.
I quadri di due pittori marchigiani che operano in Ancona tra la fine del Trecento e l'inizio del Quattrocento, Carlo da Camerino e Arcangelo di Cola, sono stati contributi essenziali alla costruzione della mia lanterna. La pittura del primo si caratterizza attraverso alterne vicende che passano da un lirico e raffinato abbandono ad altre piu' solide e ferme nella loro popolareggiante solennita', come - in modo esemplare - nella Dormitio Virginis: distesa sul cataletto ricoperto da un telo rosso con decorazioni geometriche a spirale, il capo posato su un voluminoso cuscino ricamato d'oro e avvolto da un telo chiaro, la Vergine, con un manto blu borchiato sopra il meforion rosso ciliegia, ha le braccia incrociate da due voluminosi apostoli che, genuflessi in primo piano, le baciano le mani. Al centro della pala, tra coppie di angeli, e piu' da presso, Michele e Gabriele, i due arcangeli armati, Cristo, seduto sul trono, tiene sulle ginocchia la Madre, adulta nel viso e nelle vesti ma bimba nelle proporzioni. Due situazioni diametrali ma non corrispondenti, date nell'unita' dell'istante: nel tempo, fuori dal tempo: la Vergine che si e' appena assopita nel mondo; l'assunzione in cielo della piccola Maria che reca tutti i segni della sua storicita'. Nel regno, l'ordine della diade e' invertito, stravolgendo la necessita' della phisis: qui il figlio e' la madre, e la madre e' il figlio. L'altra opera del Camerte e' la Vergine incoronata, un frammento d'affresco: l'immagine e' ridotta al busto di Maria (un velo bianco le copre i capelli; l'aureola e' in rilievo come in rilievo sono la corona e il prezioso colletto: una nobilta', grandiosita' impressionanti; un piccolo capolavoro per la composizione chiusa, stretta, affettuosa, e per i colori che sono tutte gradazioni di oro e biondo).
Di Arcangelo Cola (forse presente a Firenze nel momento del passaggio dall'arte gotica a quella del Rinascimento, attraverso l'opera di Donatello e di Masaccio) c'e' la Madonna dell'Umilta', dove si coglie ancora un'adesione alle caratteristiche del tardo-gotico, forse lusinghiere per un provinciale. Sorprendente, tuttavia, l'espressione pensosa e lontana della Vergine, la direzione verso il suolo di uno sguardo che non ha oggetto definito (come se immaginasse gli anni a venire di quel bimbo: un futuro di gloria nell'invisibile, il patibolo del servo nel visibile).
Gesu', cinto dal disegno perfetto di lunghe e gentilissime mani, si protende verso il seno materno ma c'e' nei suoi occhi un premonimento di separazione: il loro improvviso, quasi bovino disorientarsi, come di fronte all'irruzione di un astante (l'osservatore stesso, questo involontario complice di ogni scena dipinta?).
L'unita' gaudiosa dell'origine si rovescia, spezzata, verso l'esterno: il tempo, il mondo, la pena (che con il Cristianesimo diventano parimenti faccende di uomini e dei: un comunismo metafisico).

 

__________________________

di Franco Scataglini - Il primo museo - ne "Il Manifesto", Sabato 14 Agosto 1993