La "nuance" dialettale

Saremo d'accordo su un punto: che nel rapporto tra lingua e dialetto, nell'ambito della poesia italiana, il problema della traducibilita' si pone in una sola direzione, quella da dialetto a lingua. Cinquant'anni fa la situazione poteva essere diversa; c'era ancora chi intraprendeva la versione de La divina commedia in romagnolo o in comasco. Libero dal pregiudizio e dall'illusione di poter porre questo rapporto in termini di bilinguismo letterario, il nuovo poeta in dialetto sa che il problema esiste per lui soltanto ove si tratti di dotare di traduzioni a pie' pagina i suoi testi (dove anche la collocazione tipografica segnala la natura perifrastica e circonlocutoria del corredo). E questa traduzione per lo piu' egli stesso l'intraprende, ed e' opera tanto piu' utile e meritoria quanto piu' sa resistere alla tentazione di rifare, traducendo, il maquillage ai suoi versi.
Cio' premesso, devo dire che questo problema della traducibilita' non si pone per un dialetto come il mio, caratterizzato - rispetto alla lingua - da tratti metaplastici che alterano, senza obliterarlo, il profilo costitutivo delle parole (salvo quei tagli metasememici che chiamiamo punte idiomatiche e che io mi sentirei gia' di ascrivere al campo delle escogitazioni retoriche).
Altra cosa, invece, per quegli autori che usano dialetti dall'identita' piu' accentuata e divaricante rispetto alla lingua. Senza traduzioni non potrebbero essere compresi (e cosi' succede che solo un testo fantasmatico si aggiri per la mente del lettore non locale» e non accademico»). Tuttavia, mentre certamente esistono tra due diverse lingue radicali differenze di sistemi di pensiero, non mi pare che altrettanto si possa dire del rapporto della lingua con i dialetti e dei dialetti tra loro. E se e' vero che minimi spostamenti di luogo e minime variazioni di modo nell'approccio al reale (tecnologia e costume) lasciano segni certi nelle parlate, il piano su cui essi si evidenziano e' comune e tutti unanimemente li sostiene. Questo, per esempio, si puo' dire anche per uno dei nostri dialetti piu' impenetrabili e ostici, il romagnolo. Valgano, questi due versi di Raffaello Baldini, interlineati in lingua (da I nottal: i pipistrelli):

Me' a sbat i veidar, a i dagh s'n straz
Io sbatto i vetri, ci do' con uno straccio
qualchedeun a l'aciap, mo u n'eintra d'ilt.
qualcuno lo acchiappo, ma ne entrano altri
.

Pero' esiste un sistema di variazioni fonemiche che danno luogo a variazioni di ordine musicale. Se in termini semantici e' sempre possibile (o quasi sempre) rintracciare nella piu' oscura espressione dialettale i contorni familiari di una forma romanza o greco-latina (in Ancona, ad esempio, per un indumento che perde la sagoma si dice che se sdelma» e delma e' una parola greca che vuol dire, appunto, sagoma), dal punto di vista della musicalita' le cose cambiano profondamente. Cio' risalta soprattutto laddove l'espressione dialettale sia molto vicina a quella della lingua. Ecco due versi di Mario dell'Arco (da Tormarancio):

Er vento de la pianura
batte ar filo spinato.

Rispetto alla lingua lo scarto e' minimo ed e' marcato dai tratti distintivi e/i ed r/l in due granuli della sequenza. C'e' come la palpebrazione di una nuance che alterando minimalmente due sintagmi, uno nel primo e uno nel secondo verso, da' espressamente luogo a un inedito effetto di senso. L'articolazione di questo effetto passa per il legame che s'instaura tra i suoni in r (er-ur-ar): ER vento della pianURa/ batte AR filo spinato. Lo schema alliterante e paronomastico si risolve in tropo con uno spostamento dal piano morfologico a quello semantico: la sequenza er-ur-ar funge da vero e proprio incastro tra le parti forti dell'enunciato: vento, pianura, battere, filo spinato; e la vibrazione in r che lo percorre diventa l'immagine acustica di un brivido d'aria pei recinti di un esilio malinconico e lacerato. Proviamo a sostituire la r con l'altra liquida, la l; e la e con la i:

Il vento della pianura
batte al filo spinato.

C'e' come uno slegamento delle parti: la connessione tropica regredisce a connessione morfologica, e i due versi si afflosciano l'uno sull'altro come due stracci. se tutto cio' sembra troppo sottile, diremo che l'estetica e' l'ambito delle sfumature del senso. E che un dire fuori dall'estetica puo' essere tutto fuorche' poesia.
Questa differente musicalita' che percorre i dialetti non e' tuttavia astraibile dai reticoli socio-linguistici all'interno dei quali, distintamente, essi assumono la loro identita' (da questo punto di vista l'uso del dialetto come una lingua dalla purezza supplementare, per una poesia, come dire, piu' poetica», mi sembra un banalissimo miraggio). In termini di poesia, cio' deborda dal dato di semplice pigmento. La r di Dell'Arco e' la pronuncia struggente dell'esistenza reclusa e separata cui segni di offesa vita non interdicono lo sguardo e la coscienza degli spazi liberi. Quella vibrazione e' il dire diventato sema senza passare per le convenzioni del significato.
Dice Borges che niente e' piu' pericoloso (per gli effetti parodistici che trae inevitabilmente a se') dell'uso letterario di un vernacolo troppo simile alla lingua. Borges e' un grande scrittore ma non proprio un ingegno dialettico. Adorno, viceversa, lo e': ed ecco un taglio di pensiero che fende, fino a scoprirne le determinazioni necessarie e profonde, l'aleatorieta' aneddotica di un suo lapsus dialettale: Una sera di inconsolabile tristezza mi sorpresi ad usare il congiuntivo risibilmente falso di un verbo gia' di per se' non proprio del tedesco puro, un uso che appartiene al dialetto della mia citta' natale. Io non avevo piu' udita questa famigliare forma errata dai miei primi anni di scuola, meno che mai poi l'avevo adoperata. La malinconia, che mi trascinava irresistibilmente giu' nell'abisso dell'infanzia, ridesto' sul fondo l'antico suono impotentemente struggente. Come un'eco la lingua mi rimando' l'umiliazione che l'infelicita' mi recava scordando cio' che io sono».
Il dialetto, dunque come lapsus della disperazione? E questo non e' gia' un seme di poetica (e di politica)?

 

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di Franco Scataglini in "La traduzione del testo poetico", Edizioni Guerini e Ass.ti, Milano 1989