I leprotti marchigiani

 

Diceva Pound, se non sbaglio, che compito della poesia e' tenere in esercizio il linguaggio: mantenerlo in forma, insomma, all'altezza degli uffici espressivi che l'attualita' gli assegna, garantendo quel tanto di rinnovamento cellulare necessario per farlo arrivare con un minimo di anticipo sui propri tempi. E' una formula che lo sperimentalismo degli anni Sessanta ha sposato con entusiasmo, e che poi ne ha seguito le sorti finendo pressocche' dimenticata. Per questo probabilmente operazioni letterarie come La rosa di Franco Scataglini (Einaudi, pagg. 95, lire 12.000, con consistente prefazione di Cesare Segre) ci arriva oggi come da un altro tempo; e non solo perche' si tratta di una libera traduzione in versi (ma meglio sarebbe chiamarla riscrittura) di una parte del duecentesco Roman de la Rose, ma soprattutto per la natura lingustica di tale riscrittura, che mescola italiano antico, latino, latinismi e dialetto marchigiano in un pastiche tanto improbabile a dirsi quanto gratificante a leggersi.
Sperimentalismo puro, si direbbe; ma qualcosa nel testo ci fa sentire ben lontani da un freddo e tutto cerebrale lavorio in vitro. Difficile stabilire di che si tratti: ma come non cogliere, per esempio, la pervasiva e tutta viscerale meraviglia che promana da versi come questi: Sortivane cunilli/ fori de tana, arzilli,/ con millanta carole/ de ruzoli e capriole/ che p'ogni dove chiotti/ se disperdea e leprotti»? Oppure la funebre amarezza, il tangibile disagio di questi altri: El tempo non desvìa/ dal tiénece in balìa/ de l'impura vechieza,/ esposti a la crudeza/ -sordastri e senza denti-/ de la vita, impotenti/ come i da pogo nati,/ più tonti che beati,/ stridulenti fiolini:/ però senza destini./ I vechi piega el stelo/ soto al ponde d'un gelo/ de galaverna entragna»?
Si ha l'impressione, in altri termini, che il Roman de la Rose funzioni per Scataglini un po' come Solone e Saffo per il Pascoli conviviale»: che gli offra cioe' uno schermo, una zona di sicurezza» attraverso cui far passare, come fossero di altri, le parole dettate da una prima persona riottosa e difesa ad oltranza, decisa a non esporsi se non in maschera. C'e' un solo passo de La rosa, contrassegnato dal corsivo, nel quale la maschera sembra venir meno: io che traduco el sogno/ de un poema e risogno/ da desto quel sogna',/ espono qualita'/ velate d'aparenza...». Risognare un sogno altrui, far allegoria di un'allegoria, la poesia come spazio esclusivo del gia' detto...: e in fondo a tutto la certezza che quello spazio e' il mondo, e che in quel sedimento antichissimo e' nascosta la chiave per svelare il senso nuovissimo del tempo di la' da venire.
E' un viaggio complesso e certamente non rettilineo, quello di Scataglini: un'esplorazione del linguaggio poetico che parte dal punto d'arrivo, e che dunque non si aspetta scoperte, ma solo conferme. Il patrimonio arcaico di un dialetto appartato e lontano dalla letteratura come quello marchigiano si specchia negli spazi remoti del Medioevo francese, da cui si irraggia a sua volta un italiano curiale e latineggiante che si rivela sorprendentemente affine all'impasto vernacolare: e' davvero la voce dei secoli a venir modulata da quei settenari a rima baciata che riecheggiano ma non imitano - per decisiva differenza di ritmo - le coppie di octosyllabes» dell'originale di Guillaume de Lorris (a proposito: sarebbe stato cosi' dispendioso riprodurre magari in appendice i versi francesi riscritti» da Scataglini? E approntare un glossarietto in modo da non gettare nella disperazione chi non conosce il marchigiano? La recessione, d'accordo, ma insomma...).
Ma nel suo manifestarsi qui e ora, quella voce cosi' composita e ibridata non puo' che rivelare un progetto ambiziosissimo: il restauro dell'allegoria d'amore - certo ormai profondamente venato d'ironia e disincantato almeno quanto entusiasta e nativo benche' raffinatissimo era il lontano modello - potrebbe in fondo voler riaprire, in quest'ultimo decennio del Novecento, un discorso che proprio i Romanzi della Rosa» di D'Annunzio sembravano aver definitivamente chiuso, nell'ultimo decennio dell'Ottocento, su un esito cupamente psicotico. E' il discorso dell'Amore come chiave d'accesso a una tonalita' dell'esistere e del conoscere, come fondamento per una visione del mondo sotto specie estetica ed edonistica che garantisca l'armonia felice tra merito e spirito, e che dunque ricominci a costruire», magari con l'ingenuita' di un poeta duecentesco, sulle sterminate waste lands del nostro secolo.
E' presumere troppo da un giocoliere della lingua esperto in marchigiano? Forse. E tuttavia la perfetta levita' della sua scrittura, le acrobazie sperimentali compiute senza sforzo apparente, la ricerca sottile e consapevole dei piu' inusitati spessori espressivi, inducono a pensare che qui il linguaggio si sia davvero esercitato e rivitalizzato, e che proponga quindi qualche discreta profezia, e a suo modo giochi d'anticipo con la storia... Ma bando agli oroscopi, e largo alla poesia: Ma repente distinsi/ solingo un boccioletto/ in cima a un gambo eretto/ come un giunco. Beltà/ de schiva unicità,/ lieve come un cartiglio,/ delicato, vermiglio,/ era idea ed era cosa/ quel bociolo de rosa.

 

_______

di Stefano Giovanardi in "La Repubblica" 31 dicembre 1992