La cerimoniosa mascherata
(Appunti per una teoria della poesia dialettale)

Premessa
Accade nel setting analitico che il discorso da dire si scopra in una frangia, un tratto minimale del discorso detto. Ma e' proprio quello il momento in cui non c'e' piu' niente da dire perche' il nocciolo di buio che sosteneva, involgendovisi, quel discorso si e' dissolto: la verita', mi si passi la metafora, e' uscita dal logos per accettarsi muta.
E' accaduto anche per questo mio discorso: alla fine non avro' detto niente sulla poesia dialettale ma sapro' con certezza il senso intimo del mio fare poesia dialettale. E quindi avro' detto, per chi vorra' capire, cosa puo' essere oggi, alle soglie dell'ultimo ventennio del Novecento, entrare - nella letteratura - attraverso la restrizione linguistica ed esistenziale di un dialetto.
Il mio discorso e' diviso in paragrafi: puo' e puo' non esservi connessione logica tra loro.
Il primo paragrafo articola, nella contrapposizione tra discorso scientifico ed accademico, l'esigenza di aprire il varco al campo della soggettivita', che e' il campo della scissione e del discorso parziale.
Il secondo insinua che, nella cultura italiana, la presenza della cosa spinosa detta poesia dialettale si aggiri come uno spettro di castrazione.
Il terzo collega castrazione a privazione ed insinua l'idea di una denegata complicita' degli stessi poeti dialettali all'elusione e alla rimozione che investono la presenza della poesia dialettale.
Il quarto reperisce nella faccia letterale della poesia dialettale tratti iconici di materialita' e corporalita'.
Il quinto collega il dialetto alla maschera, la maschera alla scena tentando di invalidare ogni appello al dialetto, nella letteratura, come lingua immediata» della realta'.
Ora che l'ho scritto potrei riscriverlo daccapo e sarebbe certamente un altro discorso.

 

Scientifico/Accademico
Quando si tratto' di fissare il mio intervento in questo convegno dedicato alla poesia marchigiana io dissi che avrei accettato a condizione di non dover fare un discorso scientifico.
Mi fu chiesto se per scientifico non intendessi accademico, nel qual caso non solo non dovevo ma mi si pregava di non fare essendo ogni preoccupazione del genere bandita dalle intenzioni e dalle attese degli organizzatori.
Ma discorso scientifico e discorso accademico appartengono, lo si voglia o no, al medesimo campo contraddistinto dalla elusione del soggetto, dove per elusione si deve intendere precisamente la maniera di lasciare da parte un termine essenziale, di non volerne saper niente, di non intrattenere con esso altro rapporto che quello di ignoranza, di misconoscimento o di oblio.
Tener conto della posizione soggettiva e' tener conto del fatto che le cose non si possono dire che a meta', o in doppia partita, precisamente sostenute dal soggetto, ed e' per questo che Lacan ha introdotto la espressione di semidire.
Se vi e' un fantasma tanto universalmente diffuso quanto difficilmente riducibile, e' quello della completezza: nulla sembra far impedimento alla compulsione a proiettare su ogni cosa una forma di totalita' sferica che ha il nome di unita', pienezza, omogeneita', o piu' insidiosamente: coerenza, pertinenza.
In questa universale compulsione a costituire unita' piene e finite, nulla puo' impedire di riconoscere gli sforzi di una passione di misconoscimento, cioe' della tendenza assai insistente a ridurre il soggetto a un termine non scisso simile a un io», un soggetto-supporto della coscienza e della conoscenza. Correlativamente all'apprestamento di questo soggetto pieno, si dispiega una parola ostruente, morta, in cui non conta che il versante congelato della lettera; e' questa parola infinitamente manipolabile che regge allora uno spazio funzionale parzialmente adattato a risolvere tutti i conflitti e preposto alla sottrazione di ogni godimento.
Si sara' riconosciuta, penso, la struttura del discorso accademico al quale si riconduce cio' che si chiama approssimativamente la scienza, in quanto il sapere vi e' posto in posizione prioritaria.
L'elusione del soggetto, nel contempo riduzione e messa fuori gioco, e' la condizione stessa di un discorso che vuol essere scientifico.
Dunque, la funzione di questa premessa costruita con citazioni tratte da un testo di Serge Leclaire e' modale: allude ai modi del mio intervento fuori da ogni ricorso ad una parola che si pretenda espunta delle contraddizioni, delle forzature e delle parzialita' del discorso soggettivo.

 

Il fico d'India
L'oggetto intorno al quale devo girare come l'uomo vuoto di Eliot intorno al fico d'India, e' la poesia dialettale: pianta spinosa, coi frutti difficili da maneggiare, succosi ma con residui come se di rena desertica soltanto addolcita dall'intimita' della polpa.
A ben guardare parrebbe un feticcio priapeo e pero' gli aculei fitti e lunghissimi suggeriscono per metonimia l'immagine di quei piccoli cuori imbottiti su cui le massaie e le sarte di un tempo, appuntavano gli aghi: quei piccoli cuori imbottiti che mi facevano pensare al santissimo e violatissimo cuore di Gesu', e piu' eroticamente allo sforacchiatissimo corpo dell'Adone cattolico, San Sebastiano.
secondo alcuni la categoria di poesia dialettale non avrebbe maggior dignita' epistemologica di poesia femminile; secondo altri deve valere per essa cio' che vale per la nozione stessa di dialetto che in tanto puo' istituirsi in quanto non si abbia solo opposizione dei singoli dialetti l'uno verso l'altro, ma anche e soprattutto opposizione di tutti i dialetti asssieme verso qualcosa di natura e rango diverso che e' la lingua. In questo senso, la resistenza e la controffensiva odierna della poesia in dialetto potrebbe essere interpretata anche globalmente come un atto di rifiuto e di opposizione, magari in articulo mortis», alla sempre piu' spietata rapidita' dell'accentramento livellatore che sta completando la distruzione, avviata all'origine dello stato unitario, di quelle variatissime peculiarita' di lingua e di cultura che erano una delle ricchezze, e delle piu' originali, del nostro paese.
Infine, non sarebbe arbitrario riproporre l'interpretazione complessiva che vede, in parte o nella parte migliore della lirica in dialetto del Novecento, anche un fenomeno di resistenza e reazione, che va dal controcanto alla polemica frontale, ai modelli egemonici della coeva poesia in lingua e alla loro base culturale e ideologica: attraverso il quale possono affiorare, magari contro le intenzioni o a insaputa dell'operatore i contenuti di una cultura diversa propria del mondo emarginato che in tale parlata si esprime e di quella che potremmo chiamare la sua anti-storia o non storia. Ora quando si chiama in causa la categoria di poesia femminile io non ci vedo un termine di mera occorrenza referenziale ma un'allusione inconscia al fatto che la poesia dialettale investe, in qualche modo, il problema del fallo.
Ora, la vecchia locuzione latina, mezza notarile, che si lascia cadere in un inciso, articulo mortis», mi viene assolutamente spontaneo di tradurla articolo morto , dove articolo vale per particella determinativa, applicata sul davanti di un sostantivo ma morfologicamente disgiunta da questo e che non cada, mio Dio, che non si perda, con tutta la sua ricchezza determinativa, perche' la sostanza stessa rischierebbe di perdersi per effetto di liquefazione!
E' noto che lo studio della castrazione costringe a considerare cio' che spesso si tende ad occultare, cioe' il problema del corpo, perche' la castrazione, e Freud ha ben cura di ricordarlo, nella sua astrazione o generalita', e' proprio la separazione di una piccola cosa dal corpo». ma quale corpo? Quando cerchiamo di determinare il contenuto di questa parola finiamo sempre per parlare di un funzionamento, quello, appunto, del corpo. Cio' che chiama subito in gioco il vivere. Ma a partire da questa parola, la vita», compare l'orizzonte della morte: il mistero della vita o l'orrore della morte sono evocati.
Dunque: non sara' la poesia dialettale tanto ambigua nelle sue origini e nella sua natura da avere qualcosa a che fare con il corpo, quindi con il fallo, quindi con la perdita del fallo, quindi con la perdita delle perdite: la morte?

 

La fame
Quando si parla di poesia dialettale si esce subito dal campo della letteratura per entrare in quello della sociologia; in altri termini, questa poesia e' fatta decadere a supporto di fattori socio-linguistici.
Cio' che forse coinvolge, e certamente coinvolgeva, in una complicita' gli stessi poeti dialettali.
Cosi' Duilio Scandali, un poeta molto popolare nella mia citta', per giustificare l'esistenza della sua opera si appellava all'esigenza di dover esibire un ente del tutto illusorio, l'anima popolare anconitana, e scriveva nei primi anni del secolo: Io spero di aver dato, col presente libriccino, un'idea lontana o saltuaria, ma sufficiente di queste variazioni e di aver presentato varie facce e le piu' importanti del poliedro molteplice dell'anima popolare anconitana, cosi' trascurata finora a torto. Essa merita di essere analizzata come quella di qualunque altro popolo: possiede originalita' e peregrinita' bastevoli ad un'arte gustosa».
E' in questo limbo concettuale che ancora la poesia dialettale si aggira: un'arte gustosa, distante giusto un palmo dalla cucina, e basterebbe uno schiocco di lingua a definirla, quel particolare schiocco di lingua che segnala, attivandola, la pulsione orale. Cio' che, nella consapevolezza e nell'ironia, sarebbe di una verita' lapidaria, perche' e' ipotizzabile una maggiore contiguita' dei dialetti alla base pulsionale della parola e perche' la fame e' sicuramente stata l'esperienza endogena dei subalterni, il simbolo onnicomprensivo della privazione e dello status dell'oppresso.

 

Melos/Epigrafe
La voce e' un emissione che si separa dal corpo, che proviene da un oscuro lavoro metabolico, e che nell'uscita si fa oggetto distinto, spoglio delle proprieta' di sensibilita', di rezione e di eccitazione, e che assume un valore interessante il desiderio dell'altro; la scrittura implica il modello di superficie e consiste verosimilmente in una sorta di lavoro di grattamento che tenderebbe senza mai riuscirci a scrostare in parte cio' che offre come tale, per farne riapparire la trama: il corpus inconscio. connesse, voce e scrittura sembrano indicare un movimento di abbandono e ritorno all'intimita' dell'origine, in cui non c'e' taglio, non scissione, non caduta perche' ancora non c'e' lettera, non c'e' significazione. Se gli infanti allucinano attivamente, nella solitudine di una culla, coi loro giochi vocali, l'ambiente famigliare assente, la voce della madre, la scrittura allucina il corpo, quel Primordiale indistinto che nel rapporto segno-superficie ratifica l'incolmabilita' e l'irreversibilita' della separazione: il nascere per la morte.
Penso che la poesia dialettale, proprio per le differenze fonemiche e/o grafemiche che introduce rispetto alla poesia in lingua accentui entrambi i poli di questa oscillazione, evidenziando i supporti materiali del linguaggio, sottolineando il fatto che essi stanno per cio' che non parla, per cio' che e' nell'insondabile di un'intimita' perduta. Del resto la ricerca coattiva e ridondante, da parte del poeta dialettale, di soluzioni per afferrare sulla pagina imprecisabili entita' fonologiche e i grafemi supplementari che egli dissemina lungo i suoi percorsi, non fungono a un tempo da rimandi iconici alla voce assente e non aumentano lo spessore della scrittura?
Quelle entita' fonologiche che implicano scarti dalla norma linguistica si danno, nella valutazione della lettura, come residui di ecolalie, e i segni che le visualizzano, o tentano di visualizzarle, sembrano essere veramente caduti da iscrizioni corrose.
Si potrebbe pertanto concludere che l'oscillazione tra voce e scrittura che e' di ogni forma di poesia si accentui in quella dialettale in un'oscillazione tra melos ed epigrafe.

 

La scena e la maschera
La nascita di una poesia dialettale riflessa e' situabile nella meta' del Cinquecento, con la consapevolezza che ormai c'e' una lingua letteraria comune valida per tutta l'Italia. Migliorini notava che gli scritti in dialetto anteriori a questa eta' miravano, salvo poche eccezioni, a una lingua il piu' possibile dirozzata, pronta a risolversi in koine'» mentre gli scritti in vernacolo che ora cominciano ad apparire, sono stilizzati in forme realistiche, volutamente fedeli alla rozzezza dei singoli vernacoli, in quanto contrapposti alla lingua generalmente accolta. Il genere che meglio si presta a questa contrapposizione e' la commedia e la presenza di uno o piu' personaggi comici che parlano nel loro dialetto finisce per essere un espediente comico usuale nelle commedie della seconda meta' del Cinquecento e del Seicento; e la caratterizzazione delle maschere avviene anche per mezzo del dialetto attribuito a ciascuna di esse». Ho riportato integralmente quest'ultima frase perche' quell'anche merita di essere sviluppato.
Cos'altro caratterizza la maschera? La maschera, appunto, e poi la scena che essa evoca nel suo esibirsi, cioe' lo spazio della sua apparizione e della sua rappresentazione, e poi una forma di discorso tesa a far esplodere il riso, e una faccia letterale di questo discorso che e' il dialetto e che implica il ricorso, il rinvio, o l'allusione simbolica, a un indicibile, al residuo - o costo - di ogni discorso e di ogni rappresentazione: il reale, sociale e pulsionale, o, se preferite, il corporale.
Arriviamo alla conclusione, affrettata o fulminante (lo lascio decidere a voi) che il dialetto in quanto lingua della realta' e', nella letteratura, il significante scenico della realta'; e questo varrebbe per deduzione, anche per il preteso realismo di tutta la letteratura dialettale eccezion fatta - ma solo in parte - per le espressioni piu' evidenti di poesia lirica, sulle cui origini e natura sarebbe da fare un altro discorso anche perche' interessano aree storico-linguistiche, come quella veneta o quella siciliana, che gia' nel Duecento vantano una tradizione letteraria illustre, epica o cortese.
Ma torniamo alla maschera. Che cosa la definisce, qual e' il tratto assolutamente necessario che la caratterizza sino dalle sue origini, nel rituale prima ancora che nella parola del mito? E' il tratto animale, che si conserva anche nella maschera italiana, o letteralmente o nell'eufemismo di un'accentuazione caricaturale di una fisionomia umana: con il ghigno, furbo o ottuso, da rapina o da crapula, e, addirittura, da sempre differita predestinazione al supplizio.
Io credo che non sia opportuno - non dico indebito - estendere alla maschera in generale il discorso che Alessandro Fontana, in un saggio che intitola La scena», fa su Pulcinella: essa non puo' essere detta, ma solo mostrarsi; il simbolico infatti non e' ne' trasposizione ne' metafora di una qualche realta', ma cio' che sta fra (e quindi media) la differenza dell'immaginario, e quel resto residuo, indialettizzabile, che delimita il reale. Di qui la difficolta', ed anzi la costitutiva impossibilita', di fissare connotati semantici precisi alla maschera: essa e' soprattutto, per dirla con Freud, lo strano, l'estraneo, il sinistro, cio' che dovrebbe rimanere nascosto e che si manifesta, l'inquietante ambiguita' del doppio, l'iterativo ritorno del rimosso nelle apparenze del tremendum et fascinans ; cio' che non entra in alcun discorso, perche' ne e' il significante fondamentale, il principio costitutivo, quello che lo rende possibile. Lo strano e' la diversita' fondatrice, che non si articola nel discorso, ma prende corpo nella figura mitica», nella maschera, nel personaggio emblematico. E io potrei aggiungere: nel fantasma» che media l'ordine del perduto, tra lettera e referenza. In altri termini: il fallo, la sua ambiguita' di assenza e presenza, di velamento e di svelamento (er cressceccala di belliana memoria).
A questa definizione della maschera si collega quella di scena come ripresentazione, in forme ludiche o drammatiche, in forme cioe' di spettacolo, gioco, immagine di quei contenuti che il discorso dell'ordine, del potere e dell'autorita', traveste o esclude o nega. E' questa, una definizione resaci famigliare dalla teoria psicoanalitica, per la quale, come si sa, attivita' sceniche come il sogno, i sintomi, i lapsus intrattengono con il discorso della coscienza un rapporto di questo tipo, e si presentano appunto come la messa in scena di quei contenuti, di quelle pulsioni, di quei desideri e di quei pensieri, che la coscienza rimuove, nega o esclude».
Ora, beninteso, io non voglio dire che dialettie poesia dialettale siano totalmente investiti in prima persona del rapporto maschera-scena; voglio dire che questo rapporto aiuta a comprendere il ruolo in cui i dialetti e poesia dialettale sono stati confinati, nella nostra cultura, a partire dal Cinquecento, dal momento in cui l'ordine instaurato dalla letteratura in lingua, e che vorrei definire non provocatoriamente come l'ordine della sublimazione e della vanita' se la vanita', per stare ad un giudizio di Bataille, e' solo l'esito di un progetto che consiste nel rinviare l'esistenza a piu' tardi, nel momento in cui, dicevo, la letteratura in lingua li rimuove nell'indicibile del reale e li costringe a riapparire nella maschera di un raddoppiamento simbolico della loro rozzezza; ed e' forse per questo, non solo per qualche causa storicamente accertabile, che i dialetti diventano la lingua delle maschere. Cio' che ha intuito splendidamente Alberto Savinio quando in un'incisione rappresenta i dialetti come un gruppo cerimonioso di animali vestiti in abito da sera.


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di Franco Scataglini su "Poesia marginale e marginalita' della poesia" supplemento della Rivista "Marche oggi", numero unico, Ancona-Urbino 1980