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Il giardino di Franco Scataglini
'Na buiosa
e' tuto `l vive d'omo
L'assunzione del dialetto e' connessa ad una segreta identificazione
della mia vicenda di intellettuale solitario ed isolato con quella
degli uomini che vengono posti al margine della storia: gli esclusi,
quelli che sono deprivati degli strumenti in cui il potere si
manifesta: la lingua (incommensurabile per chi la guarda dal
suo povero idioma subalterno) e la cogenza dell'uso della forza
quando viene irreparabilmente patita. (1)
Franco Scataglini scriveva queste parole nel 1988, rispondendo
a un questionario della rivista Diverse Lingue». L'anno
successivo su Poesia» dichiarava al poeta Marco Ceriani:
Tempo fa Pino Paioni mi chiese quale fosse il sentimento che
avevo della lingua. Cincischiai poche frasi risicate. Oggi gli
direi sobriamente: il sentimento della privazione. E questo sentimento
solo il dialetto puo' esprimerlo. (2)
In un'altra circostanza Scataglini aveva parlato di se stesso
approdato al privilegio della cultura come di guitto sul proscenio
del divino».
Di immagini di negazione e deprivazione e' colma la sua poesia.
Nel testo eponimo di Carta Laniena (3) l'infanzia del poeta viene
tratteggiata come esclusione del brolo», il giardino alla
cui soglia sostera' l'autore della Rosa: (4) dentro, il privilegio;
fuori, il desiderio infinito. Guarda' escluso era un vizio,/
desia' impotente un sbaio» annotera' qualche anno dopo
nel Sol. (5)
Invece che nel giardino, l'infanzia del poeta trascorrera' all'ombra
di un mattatoio: la simbolica cacciata» lo ha gettato dinanzi
a un edificio, che diviene il paradigma della sanguinosa violenza
di cui gronda la storia (il titolo Carta laniena evoca l'ombra
cruenta della macelleria). se gli ebrei sono l'allegoria di quella
violenza, Scataglini non si nasconde che el vitelo e' virtuale».
Dietro ogni piega della storia, a l'ora de lo sbando»,
attende la torva apparizione dell'omo imbrancato, omo/ piombato
in ferrovia». (6)
In So' rimaso la spina( 7) l'identificazione scattava con la
raza de Cai'/ fadigatora al chiuso», i prigionieri del
vecchio carcere anconitano di Santa Palazia, fra le cui mura
avevano scontato una pena lontani parenti del poeta. (8) Mentre
nel Sol a riproporsi e' ancora una volta la situazione del giardino
e il poeta si trova di nuovo fuori, vittima di una misteriosa
discriminazione, invidiando i piaceri di cui gode chi sta dentro:
Io, fori dal giardino,
da un angolo infelice
guardavo el suo trenino
con la locomotrice. (9)
Al poeta, come a molti umiliati
e offesi che attraversano la scena della sua poesia, sembra destinato
il canto' de l'atesa». Non e' difficile cogliere la valenza
metafisica di questa pena, fissata da un'affilata vena epigrammatica.
In Carcere demolito: Io so che `na buiosa e' tuto `l vive d'omo».
In Carta laniena: La primordiale tara/ del vive: sorti' al niente».
E nel Sol: colmo/ era el mondo a me fiolo/ ma de mancanza».
(10) Siamo in presenza di un vulnus, che conferma una volta di
piu' la matrice esistenzialistica di tanti autori nati nel terzo
decennio del secolo.
Quello che pero' colpisce e' rilevare come questa stessa situazione
tenda a comporsi in piu' di un poeta dialettale. tipico il caso
di Franco Loi. La stigmate, l'annerimento, il marchio che Scataglini
sente nella propria lingua, Loi non si stanca di raffigurarli
nel suo destino di solitudine: Num sem luntan ne scur, e ne la
stansa/ gh'e' udur de num, rumur, desperassiun». (11) E
in Lunn: Scriv, scriv, pueta! Nel bus d'una galera/ due che te
gira inturna el mund». (12)
Non e' forse un caso che sia spettato al dialetto, lingua macchiata»
(la definizione e' dello stesso Scataglini), da vernae, testimoniare
questa esperienza della vita come marginalita', perifericita'
irredimibile. Adottare un idioma basso e provinciale significa
sottolineare la propria lontananza dal privilegio come dai centri
culturali, dalla lingua egemone come dall'emancipazione economica.
Di qui l'ambigua caratterizzazione del locus da cui si scrive
- una provincia, un quartiere periferico, una classe subalterna,
una remota regione rurale - avvertito come sacrario e insieme
prigione, luogo del riconoscimento e dell'estraneita', rifugio
e stanza della tortura.
Dietro queste connotazioni mi pare riconoscibile una diffusa
vicenda socioculturale del dopoguerra. Scuola di massa e industria
editoriale hanno condotto sulla soglia storica una nuova figura
di intellettuale proletarizzato, che, scrivendo, ha sentito il
bisogno di tematizzare la propria condizione, fra orgoglio, rabbia
e senso di illegittimita'. nel caso di Scataglini questa esperienza
era aggravata da due elementi: il vivere in una regione periferica
come le Marche e l'essere approdato alla cultura da autodidatta.
Aveva capito dopo lunghi anni che quel che conta e' non essere
periferici a se stessi. Ma quanta sofferenza gli era costata
questa conquista. Non a caso il tema della residenza» si
radica ben presto nella sua riflessione.
La poesia di Scataglini chiede di essere interpretata entro questo
schema di una marginalita' che e' insieme geografica e culturale.
Angoscia e depense avevano ritrovato in queste coordinate anagrafiche,
nella partecipazione alle figure e ai luoghi della sua identita'
individuale e storica, moltiplicatori straordinariamente efficaci.
In tal senso e solo in tal senso l'opera di Scataglini e' profondamente
marchigiana: il referto di una condizione, alla quale il natio
borgo selvaggio» leopardiano prestava il piu' illustre
degli archetipi.
Jaufre Rudel nell'ufficio Raccomandate»
Osservati dalla prospettiva della perifericita' tutti gli elementi
dell'opera di Scataglini si saldano in un disegno coerente. Si
prenda la scelta del particolarissimo dialetto, cosi' a ridosso
della lingua, eppure da essa distinto, utilizzato per confezionare
una poesia che non si potrebbe immaginare piu' lontana dal mondo
dialettale. Scataglini vi giunse attraverso letture quanto mai
squisite: i provenzali e le origini romanze, recuperati eventualmente
attraverso Pound; poi quell'Olimpo da Sassoferrato, che, eludendo
il modello del Bembo, si era provato in una poesia popolareggiante,
piu' vicina alle vecchie Koinai quattrocentesche che al monolinguismo
toscano delle Prose della volgar lingua. Facendoci sentire il
sapore medioevale del suo anconitano, Scataglini ne negava lo
statuto stesso di dialetto. Non si proponeva infatti di scrivere
in dialetto, ma di costruirsi una lingua personalissima, insieme
popolare e letteraria, in cui la parola recuperasse la fisicita'
della pronuncia, la densita' della phone'. Il suo peculiare anconetano
era un idioma saturo dell'orgoglio della residenza, recuperato
arretrando nei secoli, fino a ricongiungersi all'ultima stagione
in cui la tradizione umbro-marchigiana poteva ancora contrapporsi
su un piano di pariteticita' a quella toscana, poi codificata
nella tradizione.
Rispondendo al questionario di Diverse Lingue», Scataglini
ricorda le furtive letture degli anni di impiego alle poste.
Mi portavo il libretto di Rudel con me quando lavoravo di notte
alle Raccomandate» di Posta Ferrovia, in Ancona: i miei
colleghi, pittosto ruvidi, finirono per accettare e proteggere
quel mio laborioso appartarmi. (13)
In quell'avventurarsi nei domini letterari piu' squisiti avendo
intorno un umile scenario di vita popolare consiste tutta l'opera
di Scataglini.
In fondo due sono state nell'eta' moderna le modalita' di vivere
la condizione del poeta. Una e' stata quella dell'angelo caduto,
dell'albatro dalle vaste ali, dell'anima sublime vocata ad altri
cieli, ma imprigionata nelle contingenze. L'altra e' stata la
modalita' di chi ha creduto che la verita' attendesse invece
nei triti fatti, nella catena della necessita', nei cupi universi
di pece. Scataglini appartiene al primo tipo, mentre di solito
i grandi dialettali militano nella seconda schiera, che ci parla
di un mondo di un mondo 'mpastato de mmerda e de monnezza».
E anche questo ci da' la misura del carattere antidialettale
della sua poesia. Avrebbe potuto parlarci del mondo delle raccomandate
notturne con il linguaggio dei suoi ruvidi colleghi; E invece
ha preferito scandire segretamente i provenzali, come si reciterebbe
dall'esilio di Faraone una preghiera di salvezza.
L'emozione piu' intensa che i versi di Scataglini suscitano e'
legata allo strazio di un'esistenza sofferta come pesanteur,
purgatorio. La cifra della sua poesia consiste in un intreccio
di riconoscimento e umiliazione, rassegnazione e rancore. Pochi
altri hanno saputo farci sentire l'ambivalenza di scenari familiari,
di povere cose quotidiane, di luoghi struggentemente evocativi,
che recitano insieme l'imprinting della subalternita' e del dominio.
C'e' un testo chiave di Laudario (14) che illustra questa duplicita'.
Si intitola Frescobaldi e ricorda la scoperta sconvolgente della
musica del compositore barocco Drento le care puze/ de la grande
cucina». Quando Gozzano registrava gli odori d'aglio e
di cedrina tanto tanto per me consolatori», descriveva
l'incursione di un borghese entro gli spazi della condizione
servile. Scendendo dal sublime degli appartamenti padronali nella
cucina della Signorina Felicita, lo scrittore si calava nel regno
di un ennesimo amore ancillare. Lo stesso accadeva a Toto' Merumeni,
che, deluso dalle passioni dannunziane per attrici e principesse»,
nel silenzio notturno della sua casa possedeva, animalescamente
beato e resupino», la cuoca diciottenne.
Lo scenario di Frescobaldi non e' molto diverso da quello gozzaniano,
ma qui a mutare e' l'estrazione sociale del poeta, che ora appartiene
alla stessa umanita' della cuoca dello scettico esule o della
spenta signorina canavesiana. Non c'e' discesa dal sublime verso
il comico, ma salita dal comico verso il sublime. E, mentre il
poeta borghese, scendendo le simboliche scale che lo separavano
dalle sue piu' o meno attraenti partner, incontrava l'eros, il
poeta di origine proletaria, che risale quelle stesse scale,
incontra il privilegio della cultura. E si badi che nel caso
di Scataglini la mediazione e' topica: il vecchio telefunken»,
cioe' la radio, ossia i media, l'industria culturale, che tanta
importanza hanno avuto nella promozione delle classi subalterne.
Si potrebbe disegnare una sorta di psicoanalisi della cultura,
dove il varcare la soglia di classe coincide con il ritrovamento
di cio' sulla cui rimozione si fondano il privilegio o la servitu'.
La poesia di Scataglini vive della gioiosa conquista prometeica
di chi , dopo essersi sempre sentito oggetto del modo, puo' finalmente
assaporare il piacere di essere soggetto, di chi era stato muto
(perche' esse muto e' `l tema/ de vive, in tanta gente»)
e ha trovato finalmente il suo éffata. Ma il poeta avverte
che la sua partecipazione al sublime sara' diversa da quella
di chi al privilegio accede per un antico diritto di classe.
Scrivere in dialetto non vuol dire altro che mantenersi fedele
alle care puzze» e al telefunken», testimoniare cioe'
la condizione di chi ha sostato con struggimento fuori dal giardino
di delizie del sapere, accompagnato, come il protagonista della
Rosa, dalle figure negative dell'esistenza (odio, poverta', ira,
invidia, ecc.) dipinte sul muro di cinta. La poesia in dialetto
diviene il luogo simbolico in cui il poeta lega la propria parola
al destino sociale suo e degli altri che condividono quella stessa
parola.
Con i neodialettali compare per la prima volta sulla scena della
storia una dialettalita' che testimonia, e non solo descrive,
i segni della condizione subalterna. La dialettalita' aristocratica
e borghese era mossa dall'intento di acquisire alla pagina il
mondo popolare con il suo fervido disordine pulsionale, lasciandolo
pero' chiuso nel suo ghetto. Non a caso i grandi dialettali sono
stati spesso dei grandi reazionari: si pensi a Ruzante, a Belli,
a Tessa.
Nella nuova poesia non e' piu' il signore che regredisce nei
suoi servi, prestando loro con sapiente mimetismo la parola di
cui erano storicamente deprivati. Sono invece gli Zanni e gli
Arlecchini, le Ninette, i Marchionn, i Bongee, i protagonisti
di secoli di poesia in dialetto, che, andati a scuola, non hanno
piu' avuto bisogno dei Beolco e dei Porta per esprimersi. Divenuti
soggetti di storia, ora sono loro a rivendicare il diritto di
partecipare al convivio della cultura egemone. Ma, se fanno»
Leopardi, vogliono farlo portandosi dietro le stimmate della
loro origine: la donzelletta» e il zappatore» che
riscrivono L'infinito recando l'inconfondibile impronta idiomatica
che il conte registrava in una pagina dei Ricordi d'infanzia
e d'adolescenza. (15)
Belle melodie con povere parole
E' stato leggendo i versi di Franco Scataglini che mi si e' chiarita
questa dinamica della poesia dialettale degli ultimi decenni.
Nessuno ha reso evidente come lui il moto ascensionale che percorre
la nuova dialettalita'. Egli resta un poeta di formazione ermetica
e punta verso un'assolutezza e una rarefazione che appartengono
inconfondibilmente alla linea piu' selettiva della lirica italiana.
Il suo ermetismo e' certamente piu' vicino a Gatto che a Quasimodo,
ma non rinuncia a taluni contrassegni inconfondibili, quali la
frequente omissione dell'articolo determinativo, che imprimono
ai suoi versi il marchio di letterarieta' alta tipico di quella
scuola.
Se la tradizione dialettale aveva rovesciato le gerarchie trascinando
l'alto verso il basso, Scataglini vuole invece condurre il basso
verso l'alto. Il suo dialetto» subisce quattro tipi di
straniamento: e' costellato di voci auliche, che creano repentini
circuiti di senso (Quando l'udor dei forni/ se spandeva, plenario,/dai
svani disadorni»; Solivaghe, preumane/ enclavi dei canneti»;
Ed in fondo a una via/ lungi da lampi e scoppi,/ la dolce agiografia/
del Sol»; ecc.); e' disceso in una struttura sintattica
anti-colloquiale, fitta di iperbati, prolessi, parentetiche,
spezzata da violenti enjambements, dove la tortuosita' diviene
strumento di una piu' intensa concentrazione semantica; e' reinventato
su una filigrana medioevale; e' impaginato in quartine cantabili
e musicalissime, in cui la parola vede dissolversi ogni consistenza
negli aloni sonori, con accentuati effetti di prezioso. Fez de
leis mains vers ab bon sons, ab paubres motz» (fece delle
belle melodie con povere parole») ricorda la Vida provenzale
per Jaufre Rudel, (16) prefigurando il destino dell'autodidatta
di quasi mille anni dopo, il solitario trovatore che avrebbe
potuto farsi fabbro del parlar materno» anconetano.
Da tutto cio' risulta un dettato fortemente anti-naturalistico,
che vuole comunicare in primo luogo un senso di spaesamento linguistico.
Il codice che si assiepa nelle sue linde quartine, prima che
la parlata di una citta', e' una lingua poetica personalissima,
un idioletto obbediente a rigorose necessita' espressive.
Questa scelta appare solidale con il profilo di una poesia invariabilmente
lirica, che non nasconde le sue predilezioni per il registro
sublime. L'io resta infatti il protagonista incontrastato dell'opera
di Scataglini. La citta' di Ancona, il porto, le rare industrie
tendono a svaporare sullo sfondo, come lo strepere d'un treno»
di una celebre poesia di Pascoli. Si veda nella Ghia, in Laudario,
(17) come le banchine del porto diventino lo scenario dell'apparire
di una verita' metafisica. Quando un dato di realta' si accampa
piu' nitidamente, come accade con il carcere o il mattatoio,
con alcuni scenari della campagna fuori porta o con apparizioni
del tempo di guerra, non possiede mai una sua autonomia realistica,
ma e' sempre suscitato in funzione del soggetto. In tal senso
Scataglini appare piu' vicino al novecentismo di Giotti, Marin
o Pierro, che alla ricerca piu' modernamente corrosa di Loi e
Baldini.
Cio' non toglie che anche nell'ultimo romanzo lirico ogni esterna
gerarchia tra i dati della memoria sia abolita e la guerra possa
ad esempio contare meno del rombo di un motore che si perde,
sentito come epifania della distanza e dell'assenza. Tutto si
appiattisce nell'universo a una dimensione del ricordo. Volti,
luoghi, eventi scorrono in un'atmosfera sospesa e sognante, consegnati
spesso alla nuda elencazione dell'asindeto:
[...] Era el macello,
la ferrovia, le canne,
le mura papaline
del forte, le capanne
de foie, el vechio cine
rionale de la chiesa
la casa, la stanzetta. (18)
Inoltre l'io che funge da
protagonista della poesia di Scataglini non e' un io gravido
di impurita' biografiche. Lo si vede benissimo in questo inconsueto
romanzo di formazione» che e' El Sol. Autobiografia, certo,
ma tutta lirica, proiettata nella storia interiore. Non c'e'
traccia nei suoi versi di quello che accadeva nel famoso ufficio
Raccomandate». Anche nelle parti che si potrebbero immaginare
piu' corali, l'io poetico si muove in una strana solitudine.
Gli altri uomini compaiono nella sezione La guerra come confusa
massa intenta alla gesticolazione di una tragica partenza (El
grigioverde,/ gerbo campo de grano [...] Ricordo mani alzate/
soto a un cielo de calce») (19) o in Stella vermiglia nel
sogno di un umanesimo/ de miti facce smunte». (20) Non
ci sono incontri. Ci sono piuttosto fondali.
Mosca, le fiole caste,
le code alle fermate,
le costruzioni vaste,
le rudi infagotate
operaie de le strade,
vari cantieri e scritte
mezo ai passanti, rade
automobili invitte
e un'enorme, de legno,
muta periferia. (2)
Appare evidente a questo punto
l'importanza strategica del Sol, che costituisce anche uno dei
risultati piu' alti della poesia di Scataglini. Il poeta si e'
misurato con un tema come l'autobiografia, che non si potrebbe
immaginare piu' denso, piu' fitto di cose, persone, eventi. Ma,
fedele alla sua ispirazione rigorosamente lirica, lo ha risolto
in un diagramma puramente interiore.
Dentro il giardino
Si confronti El Sol con un'altra
autobiografia poetica composta da un dialettale della stessa
generazione di Scataglini: L'angel di Franco Loi. (22) Le differenze
balzano agli occhi evidenti. Scataglini ha scritto una serie
di frammenti lirici, Loi un poema di respiro epico, nel quale
si intrecciano le vicende politiche e culturali degli ultimi
cinquant'anni, dalla resistenza al dopoguerra, dalle speranze
del Sessantotto agli anni di piombo. Non saprei indicare nella
poesia contemporanea un altro testo cosi' intensamente attraversato
dalla durata storica, cosi' corale e insieme tanto struggentemente
attento alle ragioni del privato; I microeventi della biografia
e i microeventi della storia si intersecano senza mai risolversi
l'uno nell'altro. Questo accade perche' al centro del poema non
c'e' l'io, ma ci sono le esistenze che gli hanno dato significato.
Al centro del Sol troviamo invece una lacerazione immedicabile,
un manque, che per dirsi ha avuto bisogno di oggettivarsi in
quelle anonime rare figure scure» affacciatesi il tempo
che durano le soste di un accelerato, come leggiamo nel proemio.
Ma cio' non riduce minimamente, semmai prova, la selvaggia violenza
di quella frattura. L'oggettivo vive in funzione del soggettivo,
a dar vita al mondo e' l'io.
Mentre nell'Angel l'io diviene protagonista perche' la storia
si e' fatta esperienza che trascorre attraverso di lui, nel Sol
cio' accade esattamente per la ragione opposta: l'io e' protagonista
perche' la storia non lo ha che sfiorato. L'io vive anzi la frattura
insanabile che si apre fra natura e storia, fra il consorzio
degli uomini e la ferita originaria che il soggetto patisce nella
sua solitudine.
Neppure nel libro di Loi mancano lo sgomento di fronte al mondo
o gli interrogativi sull'identita'. Si veda l'episodio XXXVII,
in cui l'angelo-bambino si e' smarrito nel cimitero genovese
di Staglieno, un luogo non solare e mediterraneo come il cimitero
marino di Valéry, ma cupo e barocco. Lo schema e' tipicamente
platonico: l'anima, caduta nella materia, cerca di ricordare.
Il senso delle cose sta altrove.
Ma l'obiettivo del poeta milanese e' la reintegrazione dei valori
nella citta' degli uomini: il senso di Dio e la solidarieta'
che esso garantisce. La poesia di Scataglini ci parla invece
di una perdita originaria, di una Geworfenheit, per usare il
linguaggio heideggeriano che non dispiaceva al poeta, di un'orfanezza
senza speranza. Minuetto antico, nella sezione Ricercari di Laudario:
(el senso inaudibile
sentivo: l'altrove.
Dal vago incredibile
suo quando suo dove,
le trombe, spaesate,
sonava ma persa
la vita in mai state
cuntrade - diversa). (23)
Esperienza centrale in entrambi
i poeti e' la lingua. Ma anche in questo caso l'analogia si ferma
qui. Loi e' posseduto dai dialetti milanese, genovese, colornese,
che abitano in lui come voci interiori, lo attraversano, sono
temperie emotive al limite della dissociazione. Il poeta le subisce
in una sorta di trance, e' medium nel senso anche letterale di
chi si fa mezzo affinche' qualcosa acquisti per il suo tramite
fisicita'. Scataglini invece costruisce con lucida consapevolezza
antinaturalistica il suo solitario codice, rigorosamente monolinguistico
, un idioma privatissimo, remoto dal coro che possiede invece
Loi. Il peculiare, inaudito impasto di anconitano e italiano
riesce forse la piu' esplicita tematizzazione dell'introversione
dell'io.
Il poeta era partito alla ricerca di un sòno lindo»
e dentro di se' non aveva trovato che el biatola' d'un dindo/
spèrsose `nte la piova». L'opzione dialettale matura
all'incrocio tra testimonianza e divisione. Il bisogno di dire
il mondo con le umili parole del quotidiano si complica con una
piu' oscura impossibilita' di attingere la perfetta tornitura
della forma poetica: la sgrammaticatura come indizio del basso
o, nei termini psicoanalitici che sono sempre presenti nel poeta,
il lapsus come traccia dell'inconscio. Il nodo, cosi' decisivo
nella sua poesia, Scataglini lo aveva affrontato nella Rosa.
Niente al tempo resiste:/ invero, niente esiste» (24) era
il verdetto che dalla copertina accoglieva il lettore in questo
viaggio di gusto raffinatamente prerafaellita. E piu' oltre,
in versi acutamente messi in risalto da Massimo Raffaeli, (25)
aveva concluso senza illusioni:
Indove ando' belleza?
La vidi a la caveza
del tempo per le strade
finche' la trasse l'Ade. (26)
La bellezza, in cui il poeta
riassumeva le ragioni ultime del vivere, disertava il mondo e
tutto riprecipitava in un enigma ancora piu' imperscrutabile.
Giovannin Bongee, che aveva addentato il frutto del sapere, sottraendolo
alla tavola di Carlo Porta, aveva scoperto del mondo qualcosa
che andava al di la' della tipologia sociologica di chi sta sopra
e di chi sta sotto. Finalmente penetrato nel giardino, il lettore
di Jaufre Rudel aveva conquistato i fatidici rosai. Ma proprio
allora era stato perduto. Si era impossessato dell'arma terribile
che lo condannava a una nuova, piu' drammatica esclusione, ben
piu' grave di quella sperimentata dal malinconico bimbo che molti
anni prima aveva ammirato il trenino del figlio del ricco correre
luccicante dentro il parco. Aveva scoperto che in realta' nel
giardino non si entra mai, che le rose non si possono cogliere,
che la nostra condizione e' quella di chi e' condannato a sostare
all'esterno. Io vidi e fui perduto» scrivera' nella Rosa,
(27) che si chiude sull'immagine di un dardo mortale pronto a
scoccare. La poesia di Scataglini non cessa di ricordarci la
piu' amara delle verita': che il riconoscimento sta nell'esclusione.
_________________
1) Questionario per i poeti
in dialetto. Risposte di Franco Scataglini, Diverse Lingue»
(5), dicembre 1988, p. 27.
2) Gli incontri di Poesia».
Franco Scataglini e Marco Ceriani, Poesia» II (2), febbraio
1989, p. 15.
3) Carta laniena, introduzione
di F. Scarabicchi, postfazione di M. Raffaeli, Ancona 1982.
4) La rosa, prefazione di
C. Segre, Torino 1992.
5) El Sol, Milano 1995, p.
28.
6) Tutte le citazioni sono
tratte dal testo eponimo Carta laniena.
7) So' rimaso la spina, prefazione
di C. Betocchi, Ancona 1977.
8) Carcere demolito, in So'
rimaso la spina cit.
9) El Sol cit., p. 27.
10) Ibidem, p. 22.
11) F. Loi, Bach, Milano 1986,
p. 39.
12) Loi, Lunn, Firenze 1982,
p. 20.
13) Questionario per i poeti
in dialetto cit., p. 32.
14) Rimario agontano (1968-
1986), a cura di F. Brevini, Milano 1986, p. 158. Quest'antologia
comprende una scelta di versi dalle tre prime raccolte del poeta,
cui e' aggiunta una nuova sezione relativa agli anni 1982-86
e intitolata Laudario.
15) Leopardi era, come e'
noto, attento alla difforme varieta' del parlato. Si vedano in
particolare, nello Zibaldone, l'annotazione del 7 maggio 1821
(1621) e il IV dei Pensieri, che riporta ad esempio voci toscane,
colte con la sensibilita' del centro italiano: Una sera di state,
passando per Via buia, trovo' in sul canto, presso alla piazza
del Duomo, sotto una finestra terrena del palazzo che ora e'
Riccardi, fermata molta gente, che diceva tutta spaventata: ih,
la fantasima! [...] Era la finestra non molto piu' alta da terra
che una statura d'uomo, e uno tra la moltitudine che pareva un
birro, disse: s'i' avessi qualcuno che mi sostenissi `n sulle
spalle, `i vi monterei per guardare che v'e' la' dentro»
(G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di F. Flora, Le poesie e
le prose, Milano 1973, II, pp. 1-66).
Ancora piu' emozionante per l'immediatezza della registrazione
delle voci una pagina dei Ricordi d'infanzia e d'adolescenza:
Giardino presso alla casa del guardiano, io era malinconichiss.
e mi posi a una finestra che metteva sulla piazzetta ec. due
giovanotti sulla gradinata della chiesa abbandonata ec. erbosa
ec. sedevano scherzando sotto al lanternone ec. si sballottavano
ec. comparisce la prima lucciola ch'io vedessi in quell'anno
ec. uno dei due s'alza gli va addosso ec. io domandava fra me
misericordia alla poverella l'esortava ad alzarsi ec. ma la colpi'
e gitto' a terra e torno' all'altro ec. intanto la figlia del
cocchiere ec. alzandosi da cena e affacciatasi alla finestra
per lavare un piattello nel tornare dice a quei dentro = stanotte
piove da vero. Se vedeste che tempo. Nero come un cappello =
e poco dopo sparisce il lume di quella finestra ec. intanto la
lucciola era risorta ec. avrei voluto ec. ma quegli se n'accorse
torno' = porca buzzarona = un'altra botta la fa cadere gia' debole
com'era ed egli col piede ne fa una striscia lucida fra la polvere
ec. e poi finche' la cancella. Veniva un terzo giovanotto da
una stradella in faccia alla chiesa prendendo a calci i sassi
e borbottando ec. l'uccisore gli corre a dosso e ridendo lo caccia
a terra e poi lo porta ec. s'accresce il giuoco ma con la voce
piana come pur prima ec. ma risi un po' alti ec; sento una dolce
voce di donna, che non conoscea ne' vedea ec. Natalino andiamo
ch'e' tardi - Per amor di Dio che adesso adesso non faccia giorno
- risponde quegli ec. sentivo un bambino che certo dovea essere
in fasce e in braccio alla donna e suo figlio cingottare con
una voce di latte suoni inarticolati e ridenti e tutto di tratto
in tratto e da se senza prender parte ec. cresce la baldoria
ec. C'e' piu' vino da Girolamo? passava uno a cui ne domandarono
ec. non c'era ec. la donna venia ridendo dolcemente con qualche
paroletta ec. oh che matti! ec. (e pure quel vino non era per
lei e quel danaro sarebbe stato tolto alla famiglia del marito)
e di quando in quando ripetea pazientemente e ridendo l'invito
d'andarsene e invano ec. finalmente una voce di loro oh ecco
che piove era una leggera pioggetta di primavera ec. e tutti
si ritirarono e s'udiva il suono delle porte e i catenacci ec.
e questa scena mi rallegro' (12 Maggio 1819)» (Ibidem.,
I, pp. 682-83).
16) E' Scataglini stesso che
richiama il passo nella risposta al citato questionario.
17) Rimario agontano (1968-
1986) cit., p. 153.
18) El Sol cit., p. 39.
19) Ibidem, p. 67.
20) Ibidem, p. 83.
21) Ibidem, p. 97.
22) Loi, L'Angel, Milano 1994.
23) Rimario Agontano (1968-
1986) cit., p. 200.
24) La rosa cit., p. 23.
25) Il manifesto», 30
agosto 1994.
26) Ibidem.
27) Ibidem, p. 91.
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di Franco Brevini
su "FILOLOGIA ANTICA E MODERNA" N. 10, 1996 -
Universita' degli Studi della
Calabria - Dipartimento di filologia. Rubettino Editore (Rivista)
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