Il giardino di Franco Scataglini

 

'Na buiosa

e' tuto `l vive d'omo


L'assunzione del dialetto e' connessa ad una segreta identificazione della mia vicenda di intellettuale solitario ed isolato con quella degli uomini che vengono posti al margine della storia: gli esclusi, quelli che sono deprivati degli strumenti in cui il potere si manifesta: la lingua (incommensurabile per chi la guarda dal suo povero idioma subalterno) e la cogenza dell'uso della forza quando viene irreparabilmente patita. (1)
Franco Scataglini scriveva queste parole nel 1988, rispondendo a un questionario della rivista Diverse Lingue». L'anno successivo su Poesia» dichiarava al poeta Marco Ceriani:
Tempo fa Pino Paioni mi chiese quale fosse il sentimento che avevo della lingua. Cincischiai poche frasi risicate. Oggi gli direi sobriamente: il sentimento della privazione. E questo sentimento solo il dialetto puo' esprimerlo. (2)
In un'altra circostanza Scataglini aveva parlato di se stesso approdato al privilegio della cultura come di guitto sul proscenio del divino».
Di immagini di negazione e deprivazione e' colma la sua poesia. Nel testo eponimo di Carta Laniena (3) l'infanzia del poeta viene tratteggiata come esclusione del brolo», il giardino alla cui soglia sostera' l'autore della Rosa: (4) dentro, il privilegio; fuori, il desiderio infinito. Guarda' escluso era un vizio,/ desia' impotente un sbaio» annotera' qualche anno dopo nel Sol. (5)
Invece che nel giardino, l'infanzia del poeta trascorrera' all'ombra di un mattatoio: la simbolica cacciata» lo ha gettato dinanzi a un edificio, che diviene il paradigma della sanguinosa violenza di cui gronda la storia (il titolo Carta laniena evoca l'ombra cruenta della macelleria). se gli ebrei sono l'allegoria di quella violenza, Scataglini non si nasconde che el vitelo e' virtuale». Dietro ogni piega della storia, a l'ora de lo sbando», attende la torva apparizione dell'omo imbrancato, omo/ piombato in ferrovia». (6)
In So' rimaso la spina( 7) l'identificazione scattava con la raza de Cai'/ fadigatora al chiuso», i prigionieri del vecchio carcere anconitano di Santa Palazia, fra le cui mura avevano scontato una pena lontani parenti del poeta. (8) Mentre nel Sol a riproporsi e' ancora una volta la situazione del giardino e il poeta si trova di nuovo fuori, vittima di una misteriosa discriminazione, invidiando i piaceri di cui gode chi sta dentro:

Io, fori dal giardino,

da un angolo infelice

guardavo el suo trenino

con la locomotrice. (9)

Al poeta, come a molti umiliati e offesi che attraversano la scena della sua poesia, sembra destinato il canto' de l'atesa». Non e' difficile cogliere la valenza metafisica di questa pena, fissata da un'affilata vena epigrammatica. In Carcere demolito: Io so che `na buiosa e' tuto `l vive d'omo». In Carta laniena: La primordiale tara/ del vive: sorti' al niente». E nel Sol: colmo/ era el mondo a me fiolo/ ma de mancanza». (10) Siamo in presenza di un vulnus, che conferma una volta di piu' la matrice esistenzialistica di tanti autori nati nel terzo decennio del secolo.
Quello che pero' colpisce e' rilevare come questa stessa situazione tenda a comporsi in piu' di un poeta dialettale. tipico il caso di Franco Loi. La stigmate, l'annerimento, il marchio che Scataglini sente nella propria lingua, Loi non si stanca di raffigurarli nel suo destino di solitudine: Num sem luntan ne scur, e ne la stansa/ gh'e' udur de num, rumur, desperassiun». (11) E in Lunn: Scriv, scriv, pueta! Nel bus d'una galera/ due che te gira inturna el mund». (12)
Non e' forse un caso che sia spettato al dialetto, lingua macchiata» (la definizione e' dello stesso Scataglini), da vernae, testimoniare questa esperienza della vita come marginalita', perifericita' irredimibile. Adottare un idioma basso e provinciale significa sottolineare la propria lontananza dal privilegio come dai centri culturali, dalla lingua egemone come dall'emancipazione economica. Di qui l'ambigua caratterizzazione del locus da cui si scrive - una provincia, un quartiere periferico, una classe subalterna, una remota regione rurale - avvertito come sacrario e insieme prigione, luogo del riconoscimento e dell'estraneita', rifugio e stanza della tortura.
Dietro queste connotazioni mi pare riconoscibile una diffusa vicenda socioculturale del dopoguerra. Scuola di massa e industria editoriale hanno condotto sulla soglia storica una nuova figura di intellettuale proletarizzato, che, scrivendo, ha sentito il bisogno di tematizzare la propria condizione, fra orgoglio, rabbia e senso di illegittimita'. nel caso di Scataglini questa esperienza era aggravata da due elementi: il vivere in una regione periferica come le Marche e l'essere approdato alla cultura da autodidatta. Aveva capito dopo lunghi anni che quel che conta e' non essere periferici a se stessi. Ma quanta sofferenza gli era costata questa conquista. Non a caso il tema della residenza» si radica ben presto nella sua riflessione.
La poesia di Scataglini chiede di essere interpretata entro questo schema di una marginalita' che e' insieme geografica e culturale. Angoscia e depense avevano ritrovato in queste coordinate anagrafiche, nella partecipazione alle figure e ai luoghi della sua identita' individuale e storica, moltiplicatori straordinariamente efficaci. In tal senso e solo in tal senso l'opera di Scataglini e' profondamente marchigiana: il referto di una condizione, alla quale il natio borgo selvaggio» leopardiano prestava il piu' illustre degli archetipi.
Jaufre Rudel nell'ufficio Raccomandate»
Osservati dalla prospettiva della perifericita' tutti gli elementi dell'opera di Scataglini si saldano in un disegno coerente. Si prenda la scelta del particolarissimo dialetto, cosi' a ridosso della lingua, eppure da essa distinto, utilizzato per confezionare una poesia che non si potrebbe immaginare piu' lontana dal mondo dialettale. Scataglini vi giunse attraverso letture quanto mai squisite: i provenzali e le origini romanze, recuperati eventualmente attraverso Pound; poi quell'Olimpo da Sassoferrato, che, eludendo il modello del Bembo, si era provato in una poesia popolareggiante, piu' vicina alle vecchie Koinai quattrocentesche che al monolinguismo toscano delle Prose della volgar lingua. Facendoci sentire il sapore medioevale del suo anconitano, Scataglini ne negava lo statuto stesso di dialetto. Non si proponeva infatti di scrivere in dialetto, ma di costruirsi una lingua personalissima, insieme popolare e letteraria, in cui la parola recuperasse la fisicita' della pronuncia, la densita' della phone'. Il suo peculiare anconetano era un idioma saturo dell'orgoglio della residenza, recuperato arretrando nei secoli, fino a ricongiungersi all'ultima stagione in cui la tradizione umbro-marchigiana poteva ancora contrapporsi su un piano di pariteticita' a quella toscana, poi codificata nella tradizione.
Rispondendo al questionario di Diverse Lingue», Scataglini ricorda le furtive letture degli anni di impiego alle poste.
Mi portavo il libretto di Rudel con me quando lavoravo di notte alle Raccomandate» di Posta Ferrovia, in Ancona: i miei colleghi, pittosto ruvidi, finirono per accettare e proteggere quel mio laborioso appartarmi. (13)
In quell'avventurarsi nei domini letterari piu' squisiti avendo intorno un umile scenario di vita popolare consiste tutta l'opera di Scataglini.
In fondo due sono state nell'eta' moderna le modalita' di vivere la condizione del poeta. Una e' stata quella dell'angelo caduto, dell'albatro dalle vaste ali, dell'anima sublime vocata ad altri cieli, ma imprigionata nelle contingenze. L'altra e' stata la modalita' di chi ha creduto che la verita' attendesse invece nei triti fatti, nella catena della necessita', nei cupi universi di pece. Scataglini appartiene al primo tipo, mentre di solito i grandi dialettali militano nella seconda schiera, che ci parla di un mondo di un mondo 'mpastato de mmerda e de monnezza». E anche questo ci da' la misura del carattere antidialettale della sua poesia. Avrebbe potuto parlarci del mondo delle raccomandate notturne con il linguaggio dei suoi ruvidi colleghi; E invece ha preferito scandire segretamente i provenzali, come si reciterebbe dall'esilio di Faraone una preghiera di salvezza.
L'emozione piu' intensa che i versi di Scataglini suscitano e' legata allo strazio di un'esistenza sofferta come pesanteur, purgatorio. La cifra della sua poesia consiste in un intreccio di riconoscimento e umiliazione, rassegnazione e rancore. Pochi altri hanno saputo farci sentire l'ambivalenza di scenari familiari, di povere cose quotidiane, di luoghi struggentemente evocativi, che recitano insieme l'imprinting della subalternita' e del dominio.
C'e' un testo chiave di Laudario (14) che illustra questa duplicita'. Si intitola Frescobaldi e ricorda la scoperta sconvolgente della musica del compositore barocco Drento le care puze/ de la grande cucina». Quando Gozzano registrava gli odori d'aglio e di cedrina tanto tanto per me consolatori», descriveva l'incursione di un borghese entro gli spazi della condizione servile. Scendendo dal sublime degli appartamenti padronali nella cucina della Signorina Felicita, lo scrittore si calava nel regno di un ennesimo amore ancillare. Lo stesso accadeva a Toto' Merumeni, che, deluso dalle passioni dannunziane per attrici e principesse», nel silenzio notturno della sua casa possedeva, animalescamente beato e resupino», la cuoca diciottenne.
Lo scenario di Frescobaldi non e' molto diverso da quello gozzaniano, ma qui a mutare e' l'estrazione sociale del poeta, che ora appartiene alla stessa umanita' della cuoca dello scettico esule o della spenta signorina canavesiana. Non c'e' discesa dal sublime verso il comico, ma salita dal comico verso il sublime. E, mentre il poeta borghese, scendendo le simboliche scale che lo separavano dalle sue piu' o meno attraenti partner, incontrava l'eros, il poeta di origine proletaria, che risale quelle stesse scale, incontra il privilegio della cultura. E si badi che nel caso di Scataglini la mediazione e' topica: il vecchio telefunken», cioe' la radio, ossia i media, l'industria culturale, che tanta importanza hanno avuto nella promozione delle classi subalterne. Si potrebbe disegnare una sorta di psicoanalisi della cultura, dove il varcare la soglia di classe coincide con il ritrovamento di cio' sulla cui rimozione si fondano il privilegio o la servitu'.
La poesia di Scataglini vive della gioiosa conquista prometeica di chi , dopo essersi sempre sentito oggetto del modo, puo' finalmente assaporare il piacere di essere soggetto, di chi era stato muto (perche' esse muto e' `l tema/ de vive, in tanta gente») e ha trovato finalmente il suo éffata. Ma il poeta avverte che la sua partecipazione al sublime sara' diversa da quella di chi al privilegio accede per un antico diritto di classe.
Scrivere in dialetto non vuol dire altro che mantenersi fedele alle care puzze» e al telefunken», testimoniare cioe' la condizione di chi ha sostato con struggimento fuori dal giardino di delizie del sapere, accompagnato, come il protagonista della Rosa, dalle figure negative dell'esistenza (odio, poverta', ira, invidia, ecc.) dipinte sul muro di cinta. La poesia in dialetto diviene il luogo simbolico in cui il poeta lega la propria parola al destino sociale suo e degli altri che condividono quella stessa parola.
Con i neodialettali compare per la prima volta sulla scena della storia una dialettalita' che testimonia, e non solo descrive, i segni della condizione subalterna. La dialettalita' aristocratica e borghese era mossa dall'intento di acquisire alla pagina il mondo popolare con il suo fervido disordine pulsionale, lasciandolo pero' chiuso nel suo ghetto. Non a caso i grandi dialettali sono stati spesso dei grandi reazionari: si pensi a Ruzante, a Belli, a Tessa.
Nella nuova poesia non e' piu' il signore che regredisce nei suoi servi, prestando loro con sapiente mimetismo la parola di cui erano storicamente deprivati. Sono invece gli Zanni e gli Arlecchini, le Ninette, i Marchionn, i Bongee, i protagonisti di secoli di poesia in dialetto, che, andati a scuola, non hanno piu' avuto bisogno dei Beolco e dei Porta per esprimersi. Divenuti soggetti di storia, ora sono loro a rivendicare il diritto di partecipare al convivio della cultura egemone. Ma, se fanno» Leopardi, vogliono farlo portandosi dietro le stimmate della loro origine: la donzelletta» e il zappatore» che riscrivono L'infinito recando l'inconfondibile impronta idiomatica che il conte registrava in una pagina dei Ricordi d'infanzia e d'adolescenza. (15)
Belle melodie con povere parole
E' stato leggendo i versi di Franco Scataglini che mi si e' chiarita questa dinamica della poesia dialettale degli ultimi decenni. Nessuno ha reso evidente come lui il moto ascensionale che percorre la nuova dialettalita'. Egli resta un poeta di formazione ermetica e punta verso un'assolutezza e una rarefazione che appartengono inconfondibilmente alla linea piu' selettiva della lirica italiana. Il suo ermetismo e' certamente piu' vicino a Gatto che a Quasimodo, ma non rinuncia a taluni contrassegni inconfondibili, quali la frequente omissione dell'articolo determinativo, che imprimono ai suoi versi il marchio di letterarieta' alta tipico di quella scuola.
Se la tradizione dialettale aveva rovesciato le gerarchie trascinando l'alto verso il basso, Scataglini vuole invece condurre il basso verso l'alto. Il suo dialetto» subisce quattro tipi di straniamento: e' costellato di voci auliche, che creano repentini circuiti di senso (Quando l'udor dei forni/ se spandeva, plenario,/dai svani disadorni»; Solivaghe, preumane/ enclavi dei canneti»; Ed in fondo a una via/ lungi da lampi e scoppi,/ la dolce agiografia/ del Sol»; ecc.); e' disceso in una struttura sintattica anti-colloquiale, fitta di iperbati, prolessi, parentetiche, spezzata da violenti enjambements, dove la tortuosita' diviene strumento di una piu' intensa concentrazione semantica; e' reinventato su una filigrana medioevale; e' impaginato in quartine cantabili e musicalissime, in cui la parola vede dissolversi ogni consistenza negli aloni sonori, con accentuati effetti di prezioso. Fez de leis mains vers ab bon sons, ab paubres motz» (fece delle belle melodie con povere parole») ricorda la Vida provenzale per Jaufre Rudel, (16) prefigurando il destino dell'autodidatta di quasi mille anni dopo, il solitario trovatore che avrebbe potuto farsi fabbro del parlar materno» anconetano.
Da tutto cio' risulta un dettato fortemente anti-naturalistico, che vuole comunicare in primo luogo un senso di spaesamento linguistico. Il codice che si assiepa nelle sue linde quartine, prima che la parlata di una citta', e' una lingua poetica personalissima, un idioletto obbediente a rigorose necessita' espressive.
Questa scelta appare solidale con il profilo di una poesia invariabilmente lirica, che non nasconde le sue predilezioni per il registro sublime. L'io resta infatti il protagonista incontrastato dell'opera di Scataglini. La citta' di Ancona, il porto, le rare industrie tendono a svaporare sullo sfondo, come lo strepere d'un treno» di una celebre poesia di Pascoli. Si veda nella Ghia, in Laudario, (17) come le banchine del porto diventino lo scenario dell'apparire di una verita' metafisica. Quando un dato di realta' si accampa piu' nitidamente, come accade con il carcere o il mattatoio, con alcuni scenari della campagna fuori porta o con apparizioni del tempo di guerra, non possiede mai una sua autonomia realistica, ma e' sempre suscitato in funzione del soggetto. In tal senso Scataglini appare piu' vicino al novecentismo di Giotti, Marin o Pierro, che alla ricerca piu' modernamente corrosa di Loi e Baldini.
Cio' non toglie che anche nell'ultimo romanzo lirico ogni esterna gerarchia tra i dati della memoria sia abolita e la guerra possa ad esempio contare meno del rombo di un motore che si perde, sentito come epifania della distanza e dell'assenza. Tutto si appiattisce nell'universo a una dimensione del ricordo. Volti, luoghi, eventi scorrono in un'atmosfera sospesa e sognante, consegnati spesso alla nuda elencazione dell'asindeto:

[...] Era el macello,

la ferrovia, le canne,

le mura papaline

del forte, le capanne

de foie, el vechio cine

rionale de la chiesa

la casa, la stanzetta. (18)

Inoltre l'io che funge da protagonista della poesia di Scataglini non e' un io gravido di impurita' biografiche. Lo si vede benissimo in questo inconsueto romanzo di formazione» che e' El Sol. Autobiografia, certo, ma tutta lirica, proiettata nella storia interiore. Non c'e' traccia nei suoi versi di quello che accadeva nel famoso ufficio Raccomandate». Anche nelle parti che si potrebbero immaginare piu' corali, l'io poetico si muove in una strana solitudine. Gli altri uomini compaiono nella sezione La guerra come confusa massa intenta alla gesticolazione di una tragica partenza (El grigioverde,/ gerbo campo de grano [...] Ricordo mani alzate/ soto a un cielo de calce») (19) o in Stella vermiglia nel sogno di un umanesimo/ de miti facce smunte». (20) Non ci sono incontri. Ci sono piuttosto fondali.

Mosca, le fiole caste,

le code alle fermate,

le costruzioni vaste,

le rudi infagotate

operaie de le strade,

vari cantieri e scritte

mezo ai passanti, rade

automobili invitte

e un'enorme, de legno,

muta periferia. (2)

Appare evidente a questo punto l'importanza strategica del Sol, che costituisce anche uno dei risultati piu' alti della poesia di Scataglini. Il poeta si e' misurato con un tema come l'autobiografia, che non si potrebbe immaginare piu' denso, piu' fitto di cose, persone, eventi. Ma, fedele alla sua ispirazione rigorosamente lirica, lo ha risolto in un diagramma puramente interiore.

Dentro il giardino

Si confronti El Sol con un'altra autobiografia poetica composta da un dialettale della stessa generazione di Scataglini: L'angel di Franco Loi. (22) Le differenze balzano agli occhi evidenti. Scataglini ha scritto una serie di frammenti lirici, Loi un poema di respiro epico, nel quale si intrecciano le vicende politiche e culturali degli ultimi cinquant'anni, dalla resistenza al dopoguerra, dalle speranze del Sessantotto agli anni di piombo. Non saprei indicare nella poesia contemporanea un altro testo cosi' intensamente attraversato dalla durata storica, cosi' corale e insieme tanto struggentemente attento alle ragioni del privato; I microeventi della biografia e i microeventi della storia si intersecano senza mai risolversi l'uno nell'altro. Questo accade perche' al centro del poema non c'e' l'io, ma ci sono le esistenze che gli hanno dato significato.
Al centro del Sol troviamo invece una lacerazione immedicabile, un manque, che per dirsi ha avuto bisogno di oggettivarsi in quelle anonime rare figure scure» affacciatesi il tempo che durano le soste di un accelerato, come leggiamo nel proemio. Ma cio' non riduce minimamente, semmai prova, la selvaggia violenza di quella frattura. L'oggettivo vive in funzione del soggettivo, a dar vita al mondo e' l'io.
Mentre nell'Angel l'io diviene protagonista perche' la storia si e' fatta esperienza che trascorre attraverso di lui, nel Sol cio' accade esattamente per la ragione opposta: l'io e' protagonista perche' la storia non lo ha che sfiorato. L'io vive anzi la frattura insanabile che si apre fra natura e storia, fra il consorzio degli uomini e la ferita originaria che il soggetto patisce nella sua solitudine.
Neppure nel libro di Loi mancano lo sgomento di fronte al mondo o gli interrogativi sull'identita'. Si veda l'episodio XXXVII, in cui l'angelo-bambino si e' smarrito nel cimitero genovese di Staglieno, un luogo non solare e mediterraneo come il cimitero marino di Valéry, ma cupo e barocco. Lo schema e' tipicamente platonico: l'anima, caduta nella materia, cerca di ricordare. Il senso delle cose sta altrove.
Ma l'obiettivo del poeta milanese e' la reintegrazione dei valori nella citta' degli uomini: il senso di Dio e la solidarieta' che esso garantisce. La poesia di Scataglini ci parla invece di una perdita originaria, di una Geworfenheit, per usare il linguaggio heideggeriano che non dispiaceva al poeta, di un'orfanezza senza speranza. Minuetto antico, nella sezione Ricercari di Laudario:

(el senso inaudibile

sentivo: l'altrove.

Dal vago incredibile

suo quando suo dove,

 

le trombe, spaesate,

sonava ma persa

la vita in mai state

cuntrade - diversa). (23)

Esperienza centrale in entrambi i poeti e' la lingua. Ma anche in questo caso l'analogia si ferma qui. Loi e' posseduto dai dialetti milanese, genovese, colornese, che abitano in lui come voci interiori, lo attraversano, sono temperie emotive al limite della dissociazione. Il poeta le subisce in una sorta di trance, e' medium nel senso anche letterale di chi si fa mezzo affinche' qualcosa acquisti per il suo tramite fisicita'. Scataglini invece costruisce con lucida consapevolezza antinaturalistica il suo solitario codice, rigorosamente monolinguistico , un idioma privatissimo, remoto dal coro che possiede invece Loi. Il peculiare, inaudito impasto di anconitano e italiano riesce forse la piu' esplicita tematizzazione dell'introversione dell'io.
Il poeta era partito alla ricerca di un sòno lindo» e dentro di se' non aveva trovato che el biatola' d'un dindo/ spèrsose `nte la piova». L'opzione dialettale matura all'incrocio tra testimonianza e divisione. Il bisogno di dire il mondo con le umili parole del quotidiano si complica con una piu' oscura impossibilita' di attingere la perfetta tornitura della forma poetica: la sgrammaticatura come indizio del basso o, nei termini psicoanalitici che sono sempre presenti nel poeta, il lapsus come traccia dell'inconscio. Il nodo, cosi' decisivo nella sua poesia, Scataglini lo aveva affrontato nella Rosa. Niente al tempo resiste:/ invero, niente esiste» (24) era il verdetto che dalla copertina accoglieva il lettore in questo viaggio di gusto raffinatamente prerafaellita. E piu' oltre, in versi acutamente messi in risalto da Massimo Raffaeli, (25) aveva concluso senza illusioni:

Indove ando' belleza?

La vidi a la caveza

del tempo per le strade

finche' la trasse l'Ade. (26)

La bellezza, in cui il poeta riassumeva le ragioni ultime del vivere, disertava il mondo e tutto riprecipitava in un enigma ancora piu' imperscrutabile. Giovannin Bongee, che aveva addentato il frutto del sapere, sottraendolo alla tavola di Carlo Porta, aveva scoperto del mondo qualcosa che andava al di la' della tipologia sociologica di chi sta sopra e di chi sta sotto. Finalmente penetrato nel giardino, il lettore di Jaufre Rudel aveva conquistato i fatidici rosai. Ma proprio allora era stato perduto. Si era impossessato dell'arma terribile che lo condannava a una nuova, piu' drammatica esclusione, ben piu' grave di quella sperimentata dal malinconico bimbo che molti anni prima aveva ammirato il trenino del figlio del ricco correre luccicante dentro il parco. Aveva scoperto che in realta' nel giardino non si entra mai, che le rose non si possono cogliere, che la nostra condizione e' quella di chi e' condannato a sostare all'esterno. Io vidi e fui perduto» scrivera' nella Rosa, (27) che si chiude sull'immagine di un dardo mortale pronto a scoccare. La poesia di Scataglini non cessa di ricordarci la piu' amara delle verita': che il riconoscimento sta nell'esclusione.

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1) Questionario per i poeti in dialetto. Risposte di Franco Scataglini, Diverse Lingue» (5), dicembre 1988, p. 27.

2) Gli incontri di Poesia». Franco Scataglini e Marco Ceriani, Poesia» II (2), febbraio 1989, p. 15.

3) Carta laniena, introduzione di F. Scarabicchi, postfazione di M. Raffaeli, Ancona 1982.

4) La rosa, prefazione di C. Segre, Torino 1992.

5) El Sol, Milano 1995, p. 28.

6) Tutte le citazioni sono tratte dal testo eponimo Carta laniena.

7) So' rimaso la spina, prefazione di C. Betocchi, Ancona 1977.

8) Carcere demolito, in So' rimaso la spina cit.

9) El Sol cit., p. 27.

10) Ibidem, p. 22.

11) F. Loi, Bach, Milano 1986, p. 39.

12) Loi, Lunn, Firenze 1982, p. 20.

13) Questionario per i poeti in dialetto cit., p. 32.

14) Rimario agontano (1968- 1986), a cura di F. Brevini, Milano 1986, p. 158. Quest'antologia comprende una scelta di versi dalle tre prime raccolte del poeta, cui e' aggiunta una nuova sezione relativa agli anni 1982-86 e intitolata Laudario.

15) Leopardi era, come e' noto, attento alla difforme varieta' del parlato. Si vedano in particolare, nello Zibaldone, l'annotazione del 7 maggio 1821 (1621) e il IV dei Pensieri, che riporta ad esempio voci toscane, colte con la sensibilita' del centro italiano: Una sera di state, passando per Via buia, trovo' in sul canto, presso alla piazza del Duomo, sotto una finestra terrena del palazzo che ora e' Riccardi, fermata molta gente, che diceva tutta spaventata: ih, la fantasima! [...] Era la finestra non molto piu' alta da terra che una statura d'uomo, e uno tra la moltitudine che pareva un birro, disse: s'i' avessi qualcuno che mi sostenissi `n sulle spalle, `i vi monterei per guardare che v'e' la' dentro» (G. Leopardi, Tutte le opere, a cura di F. Flora, Le poesie e le prose, Milano 1973, II, pp. 1-66).
Ancora piu' emozionante per l'immediatezza della registrazione delle voci una pagina dei Ricordi d'infanzia e d'adolescenza: Giardino presso alla casa del guardiano, io era malinconichiss. e mi posi a una finestra che metteva sulla piazzetta ec. due giovanotti sulla gradinata della chiesa abbandonata ec. erbosa ec. sedevano scherzando sotto al lanternone ec. si sballottavano ec. comparisce la prima lucciola ch'io vedessi in quell'anno ec. uno dei due s'alza gli va addosso ec. io domandava fra me misericordia alla poverella l'esortava ad alzarsi ec. ma la colpi' e gitto' a terra e torno' all'altro ec. intanto la figlia del cocchiere ec. alzandosi da cena e affacciatasi alla finestra per lavare un piattello nel tornare dice a quei dentro = stanotte piove da vero. Se vedeste che tempo. Nero come un cappello = e poco dopo sparisce il lume di quella finestra ec. intanto la lucciola era risorta ec. avrei voluto ec. ma quegli se n'accorse torno' = porca buzzarona = un'altra botta la fa cadere gia' debole com'era ed egli col piede ne fa una striscia lucida fra la polvere ec. e poi finche' la cancella. Veniva un terzo giovanotto da una stradella in faccia alla chiesa prendendo a calci i sassi e borbottando ec. l'uccisore gli corre a dosso e ridendo lo caccia a terra e poi lo porta ec. s'accresce il giuoco ma con la voce piana come pur prima ec. ma risi un po' alti ec; sento una dolce voce di donna, che non conoscea ne' vedea ec. Natalino andiamo ch'e' tardi - Per amor di Dio che adesso adesso non faccia giorno - risponde quegli ec. sentivo un bambino che certo dovea essere in fasce e in braccio alla donna e suo figlio cingottare con una voce di latte suoni inarticolati e ridenti e tutto di tratto in tratto e da se senza prender parte ec. cresce la baldoria ec. C'e' piu' vino da Girolamo? passava uno a cui ne domandarono ec. non c'era ec. la donna venia ridendo dolcemente con qualche paroletta ec. oh che matti! ec. (e pure quel vino non era per lei e quel danaro sarebbe stato tolto alla famiglia del marito) e di quando in quando ripetea pazientemente e ridendo l'invito d'andarsene e invano ec. finalmente una voce di loro oh ecco che piove era una leggera pioggetta di primavera ec. e tutti si ritirarono e s'udiva il suono delle porte e i catenacci ec. e questa scena mi rallegro' (12 Maggio 1819)» (Ibidem., I, pp. 682-83).

16) E' Scataglini stesso che richiama il passo nella risposta al citato questionario.

17) Rimario agontano (1968- 1986) cit., p. 153.

18) El Sol cit., p. 39.

19) Ibidem, p. 67.

20) Ibidem, p. 83.

21) Ibidem, p. 97.

22) Loi, L'Angel, Milano 1994.

23) Rimario Agontano (1968- 1986) cit., p. 200.

24) La rosa cit., p. 23.

25) Il manifesto», 30 agosto 1994.

26) Ibidem.

27) Ibidem, p. 91.

 

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di Franco Brevini
su "FILOLOGIA ANTICA E MODERNA" N. 10, 1996 -
Universita' degli Studi della Calabria - Dipartimento di filologia. Rubettino Editore (Rivista)