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"Questionario per
i poeti in dialetto"
Franco Scataglini
Que
in "Diverse linguE", Anno I, n. 5, Dicembre 1988
1. Perche' scrivi in dialetto?
Le motivazioni della scelta linguistica sono di ordine musicale,
esistenziale e letterario. Sebbene intrecciate nell'esperienza
dell'apprendere e dell'esprimere, esse vanno distinte e trattate
separatamente.
Per la parte musicale: ho imparato presto a distinguere la sonorita'
di un verso dal suo significato e a dissociare le parole dalla
cadenza. Sulla base di questa pratica di lettura ho potuto individuare,
piu' tardi, le sonorita' essenziali dell'anconetano e intuire
la relazione con quelle della poesia umbro-marchigiana delle
origini (dal Ritmo di Sant'Alessio a Jacopone da Todi). Il mio
lavoro, dal punto di vista musicale, si e' svolto per la piu'
parte in questa direzione.
In termini esistenziali: l'assunzione del dialetto e' connessa
ad una segreta identificazione della mia vicenda di intellettuale
solitario ed isolato con quella degli uomini che vengono posti
al margine della storia: gli esclusi, quelli che sono deprivati
degli strumenti in cui il potere si manifesta: la lingua (incommensurabile
per chi la guarda dal suo povero idioma di subalterno) e la cogenza
dell'uso della forza quando viene irreparabilmente patita. La
lingua dei servi, dunque: lingua dell'affettivita' domestica
e del rassegnato abbandono al corso delle cose. Oppure lingua
dell'oscenita' e della bestemmia quando la rabbia puo' sollevare
solo un empio brandello di bandiera contro la soggezione sociale
diventata destino.
Letterariamente parlando, il mio incontro con la poesia avviene
nel 1948 in una biblioteca circolante alla quale mi ero iscritto.
Avevo fatto le scuole tecniche: non sapevo niente dell'esistenza
di un poeta che si chiamava Eugenio Montale. Trovai un libro
dal titolo stranamente famigliare: "Ossi di seppia"
(con quegli ossi da bambino ci facevo barchette che galleggiavano
nella tinozza dove mia madre lavava i panni): "Godi se il
vento ch'entra nel pomario/vi rimena l'ondata della vita:/qui
dove affonda un morto/viluppo di memorie,/orto non era, ma reliquario...":
uscii da quei versi stupefatto di intendere cose che non capivo.
Poi vennero molte altre letture, non sto a dirle tanto sarebbero
ovvie
Ma una coscienza matura del fare poetico mi e' venuta dalla lettura
dei "Saggi" di Pound e delle poesie casarsesi di Pasolini.
In Pound scoprivo tutta la tradizione romanza della poesia italiana,
dai provenzali a Dante e ai poeti del "suo circolo".
Nel friulano di Pasolini, per quanto riguarda la musicalita'
dei suoi versi, vedevo riemergere i tratti non sopiti di quella
tradizione (il profilo medesimo della sua lingua mi sembrava
occitanico). Quanto ai contenuti, in Pasolini ritrovavo quel
senso di identificazione al destino degli esclusi che io stesso
recavo in me, identificazione (in lui prendeva la struggente
intonazione di un Narciso adolescente, dall'eros vocato all'interdetto
della diversita'). Nei suoi versi in dialetto ho sentito per
la prima volta, come un messaggio soprasegmentale derivato da
una grande , persino carnale sensibilita' linguistica, l'indicibile
grumo di dolore che dimora la passivita' servile della vita:
plastica, amorosa di se', del suo fragile bene irrepetibile,
e, perche' plastica, catturabile, manipolabile, distruttibile.
Gli anni `50 sono stati contrassegnati da queste due presenze:
Pound e Pasolini. Chissa' se cio' che diciamo oggi poesia neodialettale
non abbia messo radice in quel tempo attraversando, in incubazione,
tutti gli anni `60, quando imperverseranno gli autori che di
Pound avranno accolto soltanto la lezione cosmopolita?
Per quanto riguarda Pasolini, il senso della dialettalita' usciva
dalla rimozione nazionale con quel suo volto lungo ed ossuto,
marcato da una soave e tossica disponibilita' del desiderio ad
un fantasma di virilita' violenta ed arresa. Volto della pulsione,
che non conosce distinzione sessuale ma perdita nella sacralita'
denegata dell'altro tanto quanto la soggezione sociale conosce
la perdita nell'alterita' del dominio indenegabile.
2. Come scegli tra lingua e dialetto in rapporto ai
contenuti?
Se mi viene in mente un'immagine o un pensiero, e' in lingua.
se mi viene in mente un verso, e' in dialetto. Stralcio alcuni
esempi dai miei taccuini (appunti che prendo lungo abituali camminate):
"L'edera lucida: lo squame dei greti ombrosi". Quindi:
"El giaro s'incazzeta for dai fossi...". E' un endecasillabo.
Giaro vuol dire gigaro. Incazzettarsi vuol dire avere un'erezione
ma piu' riferita a ragazzini che ad adulti. Su un'altra pagina:
"Donna senza trucco al mattino: giorno di laghi sbiaditi."
Quindi "Bianco del biancospi',/sei piu' agro che puro/-
guzo com'a scarpi'/a fil de l'ugne el muro..." (Bianco del
biancospino,/sei piu' agro che puro/- aguzzo come strappar via/con
unghie affilate l'intonaco di un muro). Potrei seguitare, ma
penso che sia sufficiente. Si tratta di due mondi separati. I
miei lettori possono anche rimanere sconcertati dalla prossimita'
del mio dialetto alla lingua. Ma una sensibilita' educata alle
sfumature dell'espressione verbale coglie lo scarto. Io dimoro
una sottigliezza. Sono in bilico su quell'inafferrabile che costituisce
il luogo precario ed astratto della differenza. E' per questo
che la mia identita' linguistica talora scompare sotto i miei
stessi occhi. Sono i momenti in cui la poesia non c'e' piu' sul
mio orizzonte. Come una luna tramontata. Come una lucerna spenta.
3. Hai imparato prima il dialetto o la lingua, e che
uso ne facevi (con i familiari, compagni di scuola ecc.)?
Ho trascorso l'infanzia in un borgo di poche case, tra citta'
e campagna. Appartenevo ad una famiglia povera e tuttavia contraddistinta
dal reddito sicuro rispetto alle altre famiglie. Mio padre faceva
il ferroviere. Mia madre aveva fatto la sesta elementare, una
rarita' in quel luogo dove non si andava mai al di la' della
terza, talche' l'avevano chiamata "la signorina". Lei
stessa parlava in dialetto, specialmente sotto l'influenza dei
suoi forti e mutevolissimi stati d'animo. Eppure cerco' di istillarmi
il sentimento di una perfezione che non tollerava errori. E il
dialetto anconetano, rispetto alla lingua nazionale, e' pieno
di "sfrondoni" come si dice qui, ancora oggi. Lo "sfrondone"
e' lo sbaglio di grammatica o di sintassi in uno che si sforza,
senza basi culturali, di parlar "bene" (cioe', di parlar
la lingua della classe egemone). Dal punto di vista della retorica
si puo' dire che l'anconetano e' un repertorio di metaplasmi
e metasememi, ma l'effetto bizzarro e ridicolo non varia. Cosi'
la parlata popolare sembra motteggiare la lingua e la lingua
sembra dispregiare la parlata popolare. Non si esce da questo
dualismo finche' non si comprende che il loro ceppo e' uno: che
a una certa distanza temporale, presso la loro origine, esse
consuonano nella modestia "volgare" della loro pronunzia.
Quando ero al centro degli stati d'animo di mia madre (e io,
per inclinazione, c'ero sempre quando stavo in casa), o quando
bazzicavo la strada con la turba dei piccoli per giocare a "lecchi"
(rozzi birilli ricavati da pezzi triangolari di mattone), o quando
ascoltavo l'eloquio altercante degli operai dei macelli che venivano
a sbicchierare nella cantina (osteria) di Gino, o alle voci allegre
dei giocatori domenicali di bocce, sotto casa mia, io ero immerso
nel dialetto. Ma presi a reprimerlo in me fin dal primo anno
di scuola, quando imparando a scrivere le prime parole e i primi
pensieri, cercai sempre di evitare i tragici ed avvilenti luoghi
della vernacolarizzazione ("Per me vita e scritura/ene cumpagni,
el sai:/tuta scancelatura/dopo dulor de sbai./Se cerca `n sono
lindo/drento de se' e se trova/el biatola' d'un dindo/spersose
`nte la piova": "Per me vita e scrittura/sono lo stesso,
lo sai:/tutto un cancellare/per rimuovere ogni volta la traccia
dolorosa dell'errore./Si cerca un suono lindo/dentro di se' e
si trova/il lamento di un tacchino/che si e' perduto in mezzo
alla pioggia). Ma con cio' la lingua ora appresa era piu' abito
che sangue, almeno riguardo a quel senso profondo del dire in
cui la nominazione delle cose e' tout court la loro sostanza.
Cosi', quando molti anni dopo presi a comporre versi in lingua,
e finche' continuai a scriverne, io ebbi sempre in me la percezione
di una frattura che non riusciva a saldarsi. Per questo scrivevo
e distruggevo. L'ho fatto per vent'anni. Risparmiai soltanto
pochi foglietti di notes vergati con minutissima e quasi intraducibile
grafia: erano i versi dialettali che avevo cominciato a scrivere
al principio degli anni `60. Si trattava di brevi quartine rimate,
alcune delle quali poi entrate in "Rimario agontano".
Sebbene non le considerassi e continuassi a comporre versi in
lingua volgendo lo sguardo all'immaginario di una Poesia Assoluta
di fronte alla quale mi sentivo come "un guitto nel proscenio
del divino" (un verso dei miei vent'anni), perche' quei
foglietti li avevo salvati? Le mie emozioni "sapevano"
di voler vestire umili panni: inclinavano al relativo dell'esistere
comune in cui meglio riconoscevano la presenza autorevole del
nulla. Dovevo farmi dimentico del dio al quale volevo assurgere
per immergermi in quella scrittura dell'esistere in cui le parole
sono corpi, desideri, perdite.
4. Quando, con chi e quanto frequentemente usi il tuo
dialetto o eventualmente un altro?
Mi trovo ad usare il dialetto ogni volta si tratti di esprimere
un senso affettivo della circostanza. Nei rapporti di prossimita',
quindi, soprattutto nelle forme mimetiche, interietive e fatiche
della comunicazione. In famiglia, con gli amici, nei vezzeggiativi
della relazione amorosa quando la tenerezza e' una diversione
cauta dell'aggressivita' erotica. Nel monologo interno della
malinconia. Oppure nell'irritazione e nella rabbia quando il
ricorso all'immediatezza dell'oscenita' verbale e' un efficace
sollievo. Nelle imprecazioni, quindi. Nella bestemmia, in cui
si profila il metafisico del dialetto, il suo modo di confrontarsi
con l'assoluto dell'empieta', che afferma Dio in quanto lo denuncia.
5. In che misura il dialetto che usi nella tua poesia
corrisponde a quello che parli? A quali registri o tradizioni
attingi, e con quanta liberta' rinnovi il tuo dialetto?
Per me, il dialetto della scrittura e' come la fabbrica di San
Pietro. E' un laboratorio permanente, in cui niente e' ultimativo
finche' resta aperto. Alla fine della scrittura, quando essa
muore (in compagnia dello scrittore oppure da sola), il laboratorio
chiude. Mi viene da pensare alla parabola dell'omino di campagna
del "Processo" di Kafka: io non ho mai l'impressione
di essere entrato nella lingua che scrivo, e nemmeno di poterne
uscire. La soglia: questo e' il suo luogo. Qui si attende, qui
si guardano i pidocchi passeggianti su per il bavero di un guardiano
spietato ed indulgente.
Il mio dialetto non corrisponde al parlato, o solo nelle sonorita'
che lo fondano. E attraverso quelle io risalgo a simiglianze
originarie: i miei modelli sono duecenteschi.
La mia liberta' verso di essa e' vasta. L'anconetano, l'ho gia'
detto, e' rispetto alla lingua, un repertorio di metaplasmi:
apocopi ed anacoluti (pa' per "pane", tuca' per "toccare",
anda' per "andare", i fioli va per "i bambini
vanno"): con un ben aggiustato colpo di forbice ogni parola
della lingua italiana, in specie se arcaica, puo' diventare dialettale.
Questi usi io li chiamo "occorrimenti" perche' possono
accadere solo quando particolari situazioni testuali lo rendono
necessario.
6. Usi o useresti il dialetto scrivendo in prosa?
No, a meno di non riferire un parlato all'interno di un testo
in lingua.
7. Qual e' la tua posizione verso la poesia dialettale
del tuo paese (o regione)?
Per quanto riguarda la produzione poetica dialettale io, nella
mia citta' e nella mia regione, ho l'impressione di vivere in
un deserto: in senso spaziale e temporale, topografico e storico.
8. Quali sono i poeti in dialetto (in qualunque dialetto)
che hanno avuto importanza per te?
Meli e Balestrieri per la fine traduzione dialettale di temi
derivati dalla poesia in lingua (l'Arcadia del primo) o dalla
tradizione classica (l'Anacreonte del secondo). Noventa per la
sorpresa del suo italiano-veneziano. Giotti per il suo spoglio
triestino (sfrondato di ogni sovrappeso topologico). Pasolini,
l'ho gia' detto, per il suo friulano che da un lato si fa segno
persino araldico di vocazione romanza e, dall'altro, marchio
di sensualita' solitaria e disperata, persa nella specularita'
di inassopibili oggetti: "mi soj dit: "Narcis!"/e
un spirt cu'l me vis/el scuriva la erba/cu'l clar dai so ris."
Belli, infine (ma primo), quando il romanesco diventa la lingua
del tragico scherno (particolarmente ne "Er caffettiere
filosofo" e in "Er dilettante de ponte").
9. Quali sono i poeti che ami?
A parte Dante, io non ho amato nessun poeta per la totalita'
della sua opera. E' meglio dire che amo delle poesie o, addirittura,
dei versi. Alcune di esse - o di essi - sono anonime. Come questo
rondeau in lingua d'oil: "Mains se leva bele Aeliz,/mignotement
la voir venir,/bien se para, mieus se vesti/desoz le raim./Mignotement
la voir venir/cele que j'aim." e quest'altro di amoroso
struggimento (les maus d'amer): "C'est desoz l'olive en
mi les pres,/- Vos ne sentes mie les maus d'amer? - /dame et
puceles vont caroler./Remirez vos bras!/Vos ne sentes mie les
maus d'amer/ausi com je fas?" Altri versi che ho mandato
a mente per prolungarne, di eco in eco, la suggestione profonda
sono questi di "Endechas a la muerte de Guillen Peraza"
in "Cancionero anonimo": "Guillen Peraza/quedo'
en la Palma/la flor marchita/de la su cara./No eres Palma, eres
retama,/eres cipres/de triste rama./(...) Guilleza Peraza/? do
esta' tu escudo?/do esta' tu lanza?/Todo lo acaba/la mala andanza."
Mala andanza e' un'espressione che poi ho usata in "Corpo
d'amore" ("So' rimaso la spina"). Quanto agli
autori, amo Rudel come se fosse qui: la vida provenzale ce lo
tramanda come colui che "fez de leis mains vers ab bon sons,
ab paubres motz": fece delle belle melodie con povere parole.
E' cio' che ho cercato di fare con il mio anconetano, quali che
siano gli esiti. La canzone "Quan lo rius de la fontana"
io l'ho imparata a memoria. Mi portavo il libretto di Rudel con
me quando lavoravo di notte alle "Raccomandate" di
Posta-ferrovia, in Ancona: i miei colleghi, piuttosto ruvidi,
finirono per accettare e proteggere quel mio laborioso appartarmi.
Sono molti i poeti che amo, ognuno per qualcosa d'assoluto, fosse
pure l'emistichio di un verso. Non sto a dirli, sarebbero troppi
e non sto nemmeno a dire tutti i debiti da pagare, tanto sono
evidenti. Tuttavia, Tristan Corbiere mi e' piu' caro per l'intensita'
e la secchezza del verso: "Il fait noir, enfant, voleur
d'etincelles!/Il n'est plus de nuits, il n'est plus de jours;/dors...
en attendant venir toutes celles/qui disaient: Jamais! Qui disaient:
Toutjours!"
10. Che cosa ti proponi con la tua poesia in dialetto,
e in vista di quale pubblico?
Non mi propongo niente di estrinseco rispetto alle ragioni musicali,
esistenziali e letterarie che ho gia' espresse. Quando scrivo
versi posso pensare ad alcune persone mai ad un pubblico. E poi
solo dopo che li ho scritti, per spogliarmi di cio' che ho fatto
e guardarlo con occhi imparziali, che sono sempre quelli dell'altro:
della donna che amo, dell'amico che stimo, del critico severo.
Semmai all'inizio degli anni `70, quando la mia scrittura dialettale
e' nata nella continuita', era come se il mio linguaggio volesse
evocare il ricordo e la nostalgia di una cancellata comunita'
di parlanti. La mia citta', la gente della mia citta', diseducata
da un vernacolarismo becero ed inaccurato, non poteva certo comprendermi.
No, non mi sono mai proposto niente. Anzi, mi viene da parafrasare
Busoni: il testo, una volta compiuto, e' completo ed immutabile.
In un sonetto in lingua, alla fine dell'adolescenza, avevo scritto:
"...un libro chiuso poesia/tiene a se' sola detta ogni momento..."
La mia passione espressiva si e' sempre volta ad un'oggettivita'
assoluta, indipendente dall'esistenza del mondo che diciamo umano.
Parlo di passione naturalmente: non di progetti e di esiti. Quell'al
di la' dell'umano che Wittgenstein chiama "il mistico"
e Sgalambro "dio". In quel mondo il testo poetico ambisce
ad essere cosa tra cose.
11. Commenta per favore qualche tuo verso mostrando le
modalita' nell'uso del lessico e della sintassi, i rapporti tra
andamento naturale e ricerche di metrica ecc.
Circa il commento ai miei versi, valgano pochi esempi.
Per quanto riguarda il lessico: el biatola' d'un dindo (il lamento
di un tacchino) del testo gia' citato, vuol dire, da un lato,
il querelarsi della vittima di un'ingiustizia e, dall'altro,
vuol dire fare la pittima (v/p), tirarla in lungo con il lagno,
come i bambini addolorati quando nessuno li ascolta e si sentono
persi nell'abbandono. Ogni tratto lessicale di un qualche conto,
in dialetto, s'irradia non per piu' sensi ma per piu' frange
del tono affettivo. Sotto questo aspetto, esso e' la lingua delle
sfumature.
Per quanto riguarda la sintassi: in un testo suggerito all'improvviso
ascolto di un canto femminile che veniva da una delle antiche
finestre del quartiere storico dove abitavo, ed elevata quella
voce a significare quella medesima della poesia, scrivo: "
In `sta conca de vechi/muri de cita' scura/chi te porta ai orechi/voce
senza figura?//Chi `n cor mio te fa drita/come punta de chiodo,/in
`sta carne ferita/chi me t'ha fato nodo?" (Non occorre tradurla).
Guardiamo l'ultimo verso, che nella pronunzia suona: kime'-tafa'-do.
E' esso stesso un nodo sintattico che lega dativo e accusativo
(me te). Letteralmente: chi a me ha fatto te (simile a un) nodo.
La locuzione viene dal linguaggio materno: una madre irritata
dai capricci del suo piccolo puo' dirgli, ad un tempo indulgente
ed affranta: ma chi me t'a' fato fa? Piu' un'interiezione che
un'interrogazione: ma perche' ti ho messo al mondo cosi' noioso
e bizzoso come sei? Verso un destinatario piu' adulto, il tono
puo' essere drammatico: perche' ti ho messo al mondo cosi' spiritualmente
malfatto come sei? Nel mio verso e' implicita un'allusione alla
maternalita' crudele della poesia, alla sua scendenza dolorosa.
Il rapporto tra andamento naturale e ricerca metrica, per me
vuol dire: andamento del discorso poetico dentro la griglia strofica
e metrica in modo naturale e coincidente o in modo innaturale
e divaricante (un andamento naturale extratestuale non m'interessa).
Prendero' un testo scritto nel 1972 e riscritto otto anni dopo,
in un momento difficile della mia vita, quando il setting analitico
mi costrinse a voltare (all'indietro) le pagine di pietra del
libro interiore. Questa e' la prima stesura: "Un coco rotondo/calciato
da `l molo:/fa un rapido volo/e fila `nte'l fondo.//I cerchi
dabasso/s'alenta e scompare./El spechio de `l mare/ritorna de
sasso." Non occorre tradurre. Bastera' suggerire che la
situazione e' quella offerta da un ragazzo che calcia un piccolo
sasso rotondo facendolo volare dal bordo del molo in acqua. Cio'
fondeva un ricordo e un pensiero (Wittgenstein: "Una cosa
puo' accadere o non accadere e tutto il resto rimane uguale".
Cosi', pensavo, per la scomparsa di un uomo: non piu' significante
di un sasso buttato nell'acqua). Si consideri anzitutto che coco
in dialetto vuol dire uovo ma il coco rotondo che si e' evoca
e' un piccolo sasso a forma, appunto, di uovo. Si trattava, da
parte mia, di un'imprecisione lessicale legata ad un ancora cauto
procedere nella materia vernacolare. Viceversa avrei dovuto usare
cocheto, che e' l'espressione dialettale corretta. Ed infatti
nella seconda versione: "Cocheto, dal molo/calciato, un
segondo/la vita de volo/non dura p'un mondo//d'inerzia. Da basso/s'archiude
le bare/a cerchi. E' de sasso/la speca del mare". La differenza
salta subito agli occhi: il secondo testo sta nella griglia strofica
e rimica come su un tavolo di tortura. In quel momento una tensione
voleva esplodere invece che implodere come era accaduto: averla
tenuta nei temi e nelle griglie stilistiche che le preesistevano,
in vista di un senso altro cui approdare, definitivo e tragico
perche' cosmico, ha implicato quel duro taglio ritmico.
Concludendo, io penso che il rapporto tra andamento naturale
del discorso poetico e ricerca metrica si risolva nella tessitura
del testo come fatto di stile e di espressione: lo stile e' costante,
l'espressione mutevole: dipende dalle circostanze in cui si configura,
dai contenuti in giuoco, dal senso che la orienta. Anche qui,
di definitivo davvero non c'e' mai niente.
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