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Che cosa e' stato il dialetto
nella tradizione italiana
in "Lingua e dialetto
oggi in Italia" , I, Palermo, 1992.
"Atti del Convegno su Lingua e dialetto oggi in Italia",
Palermo 1990
Devo dire che in questi due giorni di intenso dibattito ho avuto
modo di fare una esperienza molto interessante di apprendimento.
Ormai da anni alcune discipline (penso alla psicologia, alla
psicanalisi) con tutte le loro ricerche hanno raggiunto risultati
interessanti volti a chiarire meglio i termini della poetica,
sia sul piano della prassi che su quello della teoria. Ho l'impressione
che non ci sia stato un tentativo analogo da parte dei linguisti,
perche' il discorso e' rimasto sempre ancorato ad una problematica
linguistica. Non e' certamente un rimprovero ma soltanto una
constatazione. Mai che si sia profilata quella entita' sfuggente
ma certa che si chiama estetica, senza la quale un discorso sui
dialetti non ha alcun fondamento ma soltanto un sottofondo sociologico.
Ma io mi domando: si sarebbe fatto oggi questo convegno tra lingua
e dialetti se non esistesse un problema della poesia neo-organizzata,
se i mass-media non avessero in questi ultimi anni parlato a
spron battuto di poesia neo-organizzata?
Sono i poeti che hanno riproposto in chiave nazionale a livello
dello standard della comunicazione il problema del dialetto,
non l'universita'. Quindi in un paese che disprezza la poesia
questo e' normale. In un paese che uccide i suoi poeti questo
e' normale. Non e' normale pero' non appropriarsi del fenomeno
in se' pubblicistico anche nei suoi contenuti estetici; tentare
quanto meno di presentare l'aspetto inquietante e sfuggente della
sua presenza qual e' appunto la poesia. Perche' un poeta quando
lavora sulle parole ha un bilancino. Non si domanda se quella
voce e' perfettamente pura, se appartiene alla zona orientale
o occidentale, nella ricerca del dialetto pesa la parola in funzione
del proprio obiettivo primario, il fatto poetico che esprime.
Il poeta fa uso molto spesso intenso della lingua e del dialetto
ma stranamente con i risultati che egli raggiunge da' corpo e
significato allo stesso dialetto, porta una lingua parziale e
marginale ad esprimere contenuti essenziali e universali.
Oggi parlare di poesia dialettale si pone in questi termini.
Il mio discorso quindi verte sull'immaginario della scrittura
dialettale. E' un discorso molto complesso e non di facile digeribilita'
per i piu' giovani. Perche' il mio discorso sul significato della
tradizione italiana non vuol dire che io parlero' sul come identificare
la poesia. La presenza dell'immaginare dialettale dentro la tradizione
letteraria italiana: ma questa definizione e' molto vaga e molto
generica essa stessa; non sarebbe facile passare attraverso quattro
secoli di poesia dialettale riflessa per derivarne le forme costitutive
e dire: questo e' nobile flusso.
Quando mi sono posto il problema di affrontare questo tema che
doveva rischiarare il senso del mio far poesia in quel modo,
mi sono posto il tema in termini di poetica. C'e' una singolare
cosa da dire e cioe' che il poeta dialettale o neodialettale
e' costretto oggi a costruire un discorso critico sulla sua poesia.
per esempio, l'amico Loi, grandissimo poeta milanese, deve dire
perche' non si adegua, e con quali fini fa quella poesia. Cosa
questa che non si chiede a nessun poeta in lingua. Eppure dovremmo
chiedere anche ad un poeta in lingua le ragioni e i fondamenti
che sono alle radici pratiche del suo far poesia.
Nei poeti migliori questo accade, pero' si chiede ai poeti dialettali
la credenziale, cioe': sei colto o non sei colto? Se colui che
parla la lingua dei poveri e' un povero culturalmente o ci si
serve della lingua dei poveri per qualche idea balzana in testa.
Quindi ho voluto cercare di capire perche', a parte molte rare
beatificazioni di grandi poeti dialettali (penso al Belli, al
Porta, al Trilussa) e di altri poeti particolari come il Crugiotti
e il Marini, la longanimita' verso gli altri non sia altrettanto
evidente come la longanimita' verso i savi.
La poesia dialettale continua ad inquietare la letteratura italiana,
ad inquietarla in un modo particolare. Allora io tentero' di
capire che cosa c'e' dentro i dialetti che si sia poi trasferito
nella problematica della lingua italiana. Che cosa c'e' nei dialetti
di peculiare, in senso anche storico, che cosa c'e' che consente
questa strana forma d'illusione, di evasione, di inquietudine,
di tendenza a porsi fuori dalle ragioni della letteratura e dell'estetica.
Si dice che ci sono molti poeti provinciali, comunali, che scrivono
in dialetto e quindi danno l'idea di fare poesia povera, miserabile.
E' vero. Ma c'e' anche una pletora di poeti che scrivono in lingua,
e questo fatto non mette in discussione qual e' l'autentica poesia
italiana, non e' una giustificazione. Ma non andiamo per il sottile.
Qui nasce un problema particolare e voglio leggere un passo tratto
dalla Storia d'Italia nella lingua italiana del Migliorini, che
mi sono permesso di psicoanalizzare: Nel Tre-Cinquecento circa,
una volta normalizzata la lingua ad opera di tanti intellettuali,
[...] gli scritti in dialetto, al di la' di questa fase precedente,
miravano, salva qualche eccezione, ad una lingua piu' possibile
dirozzata, pronta a risolversi in coine', mentre gli scritti
indagati che incominciavano ad apparire sono stilizzati in forme
realistiche, volutamente fedeli alla rozzezza di singoli vernacoli
in quanto contrapposti alla lingua normalmente accolta. Il genere
che meglio si presta a questa contrapposizione e' la commedia
e la presenza di uno o piu' personaggi comici che parlano il
loro dialetto quale ricorso ad un espediente comico usuale nella
comicita' della seconda meta' del Cinquecento."
In sostanza, prima di questa normalizzazione - nota il Migliorini
- gli scrittori italiani hanno un carattere eminentemente regionale
(basta pensare alla poesia del Duecento e Trecento e come sia
marcata la coloritura significante di questa poesia); il poeta
che scrive in questa lingua regionale si sforza di affinare la
sua scrittura al punto in cui possa rispecchiarsi nella lingua
nazionale. Cioe' nella lingua d'uso, nella lingua della scrittura.
Poi c'e' questa normalizzazione che dice: questa e' la lingua,
questa esprime il mondo dei valori; le altre lingue sono nulla,
sono le lingue della realta', lingue minori, lingue basse. Ma
questa considerazione e' completamente nuova, perche' ora e'
come se colui che parla in dialetto avesse coscienza del suo
essere scrittore in dialetto.
Qui nasce la famosa coscienza di una scrittura diversa, cioe':
so che sono uno che fa il dialetto, mentre nel rapporto alto-basso
della letteratura anteriore, per esempio ad un punto sorgente
molto forte del famoso scambio di sonetti, fra gli insulti, c'era
questo scontro tra chi si faceva portatore di valori sublimati
e sublimanti in una visione del mondo che andava sino ai punti
piu' alti della contemplazione lirica (penso a Dante) e chi invece
si faceva portatore di valori parziali, marginali, realistici,
funzionali.
Questo scontro, uno scontro molto bello, basta pensare all'intonazione
felicissima di Cecco Angiolieri quando dice: Noi due siamo due
errabondi e non so che ce lo fa fare», e' la comprensione
che la funzione della poesia e' comunque una condizione dolorosa.
Ma siamo ancora nell'ambito della letteratura, una letteratura
di pari dignita', non di pari valori, ma sicuramente di pari
dignita'.
Ora invece c'e' come una scissione. C'e' una letteratura che
e' letteratura, e una letteratura che non e' letteratura. E',
cioe', un'altra cosa che serve ad esprimere sentimenti bassi,
situazioni sociali basse e fondamentalmente comiche. E' la lingua
che viene parlata dalle maschere. Se ci fermiamo ad esaminare
questo dato, non possiamo non fare una serie di connessioni.
Intanto cos'e' una lingua che, rimossa all'orizzonte, ritorna
in forma mascherata? Come mai questa lingua che e' data fuori
dall'orizzonte della cultura riappare dando conto del reale attraverso
due escogitazioni, una scenografica (la maschera) e un'altra
linguistica, il dialetto?
La lingua dialettale (questo e' un dato!) appare quindi come
una lingua straniera, una lingua con la quale si puo' dire cio'
che l'altra lingua non consente di dire. E questo, secondo me,
vale anche in termini politici.
Permettetemi di ricordare qui un poeta bresciano. Delineando
una figura di donna povera, che era andata a lavorare in citta'
offrendosi come servente, ci da' un'immagine della realta' sociale
cui soggiace e questa visione delle cose e' atroce. Descrive
il poeta l'arrivo dei soldati nel casolare che gridano, urlano,
si appropriano degli strumenti, dicono: Dove sono i becchi dei
vostri mariti?. E' uno sguardo molto significativo sulla realta'
che la funzione italiana ha costantemente rimosso.
C'e', per esempio, la societa' dell'idea contadina, rustica.
Si imbrigliera' poi la poesia dialettale con la presa in giro
dei contadini, con l'esasperazione dei ritratti caratteristici
che portano l'individuo ad assomigliare piu' ad un animale, ad
una pianta, che ad una creatura umana. E' un po' quello che avviene
nell'esperienza della presenza negra nella cultura bianca. Perche'
dovunque c'e' sopraffazione sociale la' c'e' anche l'avallo ideologico
che dice che chi e' sopraffatto e' anche ferito.
Pensate, per esempio, al Roman de la rose, all'universo meraviglioso
di questo giardino concluso» dove avvengono operazioni
elette e bellissime. Che cosa c'e' all'esterno del giardino?
E' il regno di villania. Chi e' che abita quel regno? I muli,
i non parlanti, i contadini, i reietti. Mentre nel Roman de la
rose, che e' un romanzo orale della poesia occidentale, c'e'
comunque il sogno di una ricomposizione sociale, di una riconciliazione
con il mondo, nell'orizzonte della poesia italiana del Cinquecento
tutto questo sparira' completamente. Non c'e' nessuna possibile
relazione tra l'alto e il basso.
Per questo noi molto spesso ci rivolgiamo ad una stagione anteriore
a quella della poesia dialettale riflessa. Credo che sia oggi
una vocazione dialettale di risalire a prima della poesia dialettale
riflessa, a prima di questa scissione, alla ricerca della lingua
originaria nella quale forse e' possibile rispecchiare un diverso
modo. C'e' si' questa separazione tra l'alto e il basso, ma ha
un'altra valenza, un'altra dissonanza, anche linguistica. Io
non ho nulla d'apprendere dal vivo, ho molto da apprendere da
Cecco Angiolieri, da Jacopo da Lentini, sempre nel bisogno di
uscire da questa condanna della poesia dialettale ad esprimere
la realta', perche' questo e' il punto. Essa appare da quel momento
come la lingua della realta'.
Se c'e' qualcuno che prendera' per eccessive le mie considerazioni,
sappia che io non parlo un linguaggio accademico. C'e' una totale
ricusazione di questo linguaggio in me. Io mi appello alle ragioni
della soggettivita', che sono unilaterali e parziali, e penso
che questo sia nel pieno diritto del poeta, nel parlare in nome
della sua visione delle cose, essendo la poesia il suo attestato
di ragioni.
Questo dico perche' non vorrei scandalizzare con le mie peregrinazioni
anche di dentro la tradizione letteraria italiana ed anche europea.
Ho detto diventa lingua della realta'. Una realta' - nota il
Migliorini - che rappresenta caratteri rozzi. E' la realta' dei
facchini che entra nel mondo delle maschere. Un linguaggio rozzo
di gente che non e' scrivente, di gente che e' solo parlante
e mal parlante. E il dialetto si fa portatore di quelle entita'
mal parlanti e non scriventi.
Basta esaminare gli eventi teatrali del Cinquecento per rendersene
conto. Ci sono la' delle parole che corrono costantemente e duramente
funzionali, che costituiscono proprio i nuclei divertenti, lucidi
della commedia, a livello dello scherzo, che molto spesso e'
assai brutale. Se questo fatto lo leggiamo con intenzione diversa,
vedremo la rivendicazione contro il sublime e le ragioni di chi
semplicemente opera a livello della funzionalita'. Ma non si
tratta di un passaggio immediato del dialetto nella poesia dialettale.
La mediazione tra la realta' e la poesia e' l'immaginario, cioe',
un poeta - se e' poeta - si colloca rispetto alla realta' con
la mediazione del suo immaginario scegliendo le forme a lui congeniali.
Pensiamo al Belli. Per il Belli non posso pensare che abbia fatto
il ritratto della plebe romana con un'operazione scientifica.
Belli ha messo in versi la sua anima, il suo immaginario. Ha
scritto un vostro poeta - Elio Giunta - che la storia non e'
di chi la soffre, la cultura non e' di chi la determina, non
la fa. Noi siamo tenuti a valutare la poesia dialettale in rapporto
al suo immaginario e alla valenza che nell'immaginario assumono
le forme le forme della realta' e, quindi, anche i conflitti
fra alto» e basso», tra parlante» e scrivente».
Allora viene fuori una cosa singolare.
Se questo ha un qualche fondamento estetico oltre che storico
allora si puo' cominciare a capire che cosa indichi questa presenza.
La poesia dialettale, se e' vera poesia, poesia che nell'immaginario
da' conto di cio' che e' respinto fuori dalla cultura, fuori
dalla realta' culturale, fuori dal sistema di dominio di questa
realta', essa dice quello che e' il limite e anche il contrario
di quella realta'. Abbiamo cioe' una lingua antireazionaria,
una lingua di messa in discussione. Voglio dire che, come dentro
l'universo di menzogna, il dio della menzogna, c'e' il dio della
verita', cosi' nell'universo della ingiustizia, della discriminazione
tra gli uomini, parlare da parte del discriminato vuol dire non
solo rinunciare a chi discrimina ma proporre di sognare, di immaginare
un modello della ricomposizione.
Se e' cosi', allora questa distinzione tra lingua e dialetti
sul piano letterario ha soltanto un significato estetico e come
tale va considerato. Cio' non chiama assolutamente in causa i
linguisti che compiono una loro nobilissima ricerca sulla base
di di una nuova concezione di questa realta', che e' fondamentalmente
obiettiva, che introduce a risultati scientifici e che da' un
grande contributo alla conoscenza della realta' e ai suoi movimenti.
Nella poesia il discorso e' diverso perche' essa si fa portatrice
di valori. La poesia ha la funzione di richiamare l'immagine
della vita su cio' che non vive, su cio' che e' espulso, messo
fuori dall'ambito della realta'. Chi discrimina non e' mai il
discriminato. E' colui che detiene il potere a discriminare.
E' difficile fare entrare nello spirito di una cultura una presenza
cosi' strana e cosi' inquietante. Ma che cos'e' questa poesia
dialettale? E' necessaria una ricomposizione.
Non si puo' accettare che ci sia una letteratura in lingua ed
una in dialetto come un semplice atto, un accidente. Siamo di
fronte ad un fenomeno legato alla storia con un suo significato
estetico. Il sogno, io penso, di un autentico poeta dialettale
e' la ricomposizione. Cioe' il superamento della fazione che
dovrebbe significare non tanto determinare al presente un incontro
tra parlante e scrivente (questo non ha piu' senso: tutti siamo
scriventi) ma una appropriazione della memoria storica del dolore.
Cioe', mette nella letteratura della lingua italiana proprio
la voce di chi ha sofferto la storia.
Mi pare che il dialetto, in quanto lingua rimossa all'orizzonte
della lingua italiana, in quanto lingua dei facchini, che poi
nella tradizione diventa maschera, la lingua della punizione
violenta posta come un'arma di fronte all'idea del platonismo
e del sublime, ha in se' la passione della ricomposizione; di
fronte a questo desiderio, in base anche al retaggio storico
del dolore di portare a compimento un'opera che restituisca alla
cultura nazionale il senso letterario della dialettalita'. Non
vogliamo salvare il dialetto.
Ora io mi domando: che cosa e' un linguaggio? Quando questo linguaggio
si rivolge al mondo dell'anima che e' il mondo degli stati interni?
E' espressione del pensiero, delle sensazioni, quindi esiste
una interdipendenza molto sottile tra gli avvenimenti del mondo
e questo linguaggio. Quando una lingua muore non e' soltanto
una parte del mondo esterno che se ne va, ma una parte di noi
stessi che si cancella, che si cancella con le parole che potevano
dire certe cose e che domani non potranno piu' dire. E non sono
sicuro che lo sviluppo del domani, cosi' come oggi si configura,
prevede l'integrazione tra l'uomo e gli altri uomini, fra gli
uomini e la realta' che ci circonda.
Franco Scataglini
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