Il luccichio dei sogni

 

Il tema del sogno compare spesso nella poesia di Scataglini (antologizzata, a cura di Franco Brevini, in rimario agontano, Milano, Scheiwiller, 1987), e rimane di volta in volta a due aree semantiche complementari. Quella del desiderio, del mondo creato con la fantasia in sostituzione della realtà: `sta dòna che se bea,/ nuda, de le sue forme,/ s'insogna d'esse dea/ nel letto `ndo s'indorme. E quella del sogno come luogo dell'indeterminatezza, sede di visioni non limpide, i cui contorni si stemperano nella perdita di contatto col reale: Rècite senza `n filo/ de trama, come `n sogno. In questa direzione il sogno diventa termine di paragone per indicare le nebbie della fantasia: io me aviài,/ come se pole in sogno.
La rosa
, recentemente edito da Einaudi, poemetto in strofe di dieci settenari a rima baciata, traduce un sogno, quello narrato dal duecentesco Roman de la Rose, realizzando una trasposizione dall'antico francese dell'originale a una diversa lingua romanza, l'intenso dialetto anconitano di Scataglini.
Il sogno risognato dal poeta moderno sulla scorta dell'antica favola gotica si presenta come una successione di ampie zone descrittive, caratterizzate da un ricchissimo dispiegamento di immagini. Queste sezioni, dove manca ogni progresso nella vicenda e il tempo narrativo sembra fermarsi, sono collegate, come nel modello, da un esile filo conduttore, le cui tappe si condensano in pochi eventi: un giovane, attratto dal canto primaverile degli uccelli, giunge a un giardino circondato da un muro, sul quale appaiono dipinti simbolici guardiani (Odio, Villania, Cupidigia, Avarizia..., tutti minutamente descritti in una serie di primi piani ad altissima definizione). Una splendida fanciulla, Oziosa, apre la porta del giardino, nel quale il protagonista può finalmente avere accesso, e dove incontra un gruppo di nobili figure (Piacere, proprietario del giardino, cortesia, Letizia...). Passeggiando il giovane si imbatte nella fontana di Narciso, e scorge quindi, riflesso nell'acqua, un bocciolo di rosa. Se ne innamora.
Sono questi all'incirca duemila degli oltre ventimila versi del Roman de la Rose. Soffermandosi sulla parte iniziale, Scataglini sceglie dunque, come rileva Cesare Segre nella bella prefazione al testo, di limitarsi alla "storia di un innamoramento", operando dall'interno dell'amplissima estensione del poema, "un taglio che gode di una certa autonomia".
Il sogno narrato da Scataglini è del tutto privo di vaghezza, né vi compaiono segnali di una percezione sfumata della realtà. Al contrario, il modello antico-francese guida alla creazione di un affresco smagliante di colori e ornamenti, luccicante di dettagli preziosi, costruito con la precisione visiva di un oggetto cesellato con minuta eleganza. Sogno, dunque, come universo fantastico, dove la percezione non è attutita, ma cristallina, i contorni non sfuggenti, ma nettissimi. L'attenzione al dettaglio prezioso e il gusto descrittivo sembrano infatti una precisa scelta stilistica di Scataglini, che schiera a tal fine le risorse del suo lucente e petroso dialetto.
Il rapporto tra Roman de la Rose e Rosa va in direzione di un incremento di preziosismi, sia figurativi sia linguistici, del testo derivato rispetto al modello. Dell'attenzione al visibile (forme, colori, splendori) sono documento dichiarato in primo luogo gli interventi del narratore che annunciano o concludono la presenza di zone descrittive, tutti giocati sull'Area semantica delle arti figurative. Per esempio, il proposito di descrivere il muro è così espresso da Guillaume de Lorris, autore della prima sezione del Roman, la sola cui Scataglini attinge: si vos conterai et dirai/ de ces ymages la semblence/ si com moi vient a remembrance. Scataglini dichiara sì analoga intenzione, ma con enfasi sull'aspetto delle arti visive, anzi sulla loro eccellenza tecnica: Dei nomi e dei ritratti / pittati a fini tratti/ come posso e ramento/ dirò l'adornamento. I versi che concludono la descrizione del muro registrano un nuovo incremento in direzione figurativa. Guillaume parla di immagini che furent en or et en azur/ de totes pars pointes on mur. Scataglini, lavorando di cesello sull'ordine delle parole nella frase, realizza una anastrofe grazie all'anticipazione dell'apposizione partite rispetto al nome alegorie, e inserisce, a spaziare ulteriormente i due elementi, una parentesi: partite in oro e azzurro/ (de miniature in pagine)/ le alegorie d'imagine. Ne risulta non solo una sintassi franta e complessa, estranea all'originale, ma un inedito rimando figurativo, questa volta alla tecnica della miniatura.
La presenza di espliciti referenti iconici non contemplati dal modello rappresenta comunque una costante, una vera "firma" del traduttore, insinuata nella compagine del testo anche senza l'artificio del corsivo, in altri momenti segnale del distacco dall'originale francese. E l'iniezione può abilmente verificarsi a immediato seguito di passi dove domina un tipo di traduzione letterale, che sembra negare, immediatamente prima di esercitarla in factis, la possibilità di interventi autonomi del poeta-traduttore. I versi: C'era ritratti a orfré/ storie di duchi e re corrispondono infatti come un calco preciso a s'i ot portretes a orrois/ estoires de dus et de rois. Ma Scataglini aggiunge quindi una similitudine di area artistico-figurativa del tutto inedita: tal de paré un cortegio/ cucito in un pannegio. Dopo la pittura e la miniatura ecco dunque farsi avanti l'arazzo, o, almeno, la stoffa arabescata.
Insomma, l'arte della parola di Scataglini si appoggia di continuo all'arte figurativa, evocata come necessario puntello, in forma di ora di similitudine ora di metafora, agli smaglianti fondali dello spettacolo che ruota, in sogno, presso il giardino di Piacere. E tale insistenza appartiene assai meno al testo di partenza (il Roman de la Rose) che a quello d'arrivo (La rosa), capace di trarre spunto dall'originale francese per isolare un nodo poetico fecondo di risultati molto alti.
La natura stessa, primaverile, festoso ingrediente dell'immaginario del poemetto, raggiunge la sua perfezione solo nell'ordine - innaturalissimo - di una stilizzata armonia artistica. Di qui derivano similitudini tipiche, come quella del giardino come un gemmiere, suggerita dalla variegata, multicolore vivacità dei fiori, a loro volta, inevitabilmente, paragonati alle decorazioni di un arazzo (parea trapunti/ drento a un arazzo sunti). E ancora, la perfezione della natura può essere descritta solo attraverso quella della geometria (Era, el suave ricetto,/ un quadrato perfetto), l'aspetto di un fiume attira lessico di area tecnico-artistica (parea pavimentato/ da un mosaico de ghiaia). Superfluo ribadire che tali caratteri sono attenuati o assenti nel Roman de la Rose.
Accanto alla ricca eleganza della costruzione ambientale, sta quella degli abiti dei personaggi di volta in volta descritti. Compaiono dunque stoffe ricchissime, drappi istoriati e trapunti, colori preziosi, profusione del luccichìo di gemme argenti e ori. Ecco dunque Le maniche con cura/ de bella increspatura/ per elegante efetto/ cugite al mio corsetto. situazione tipica nel testo, ma non priva del suo rovescio quasi speculare (Porta indosso un vestito/ de panno malcugito), la cui elaboratissima messa in scena vale, nell'economia letteraria, non diversamente dalla situazione contraria, di segno positivo. Analoghi contrasti si rinvengono nel sempre ricchissimo settore coloristico. Il risultato letterario di versi come Porta invece sdrugita/ vestaia scolorita, oppure verde agro è la facia / come un porro, e malacia, non sarà insomma diverso da sezioni del tipo una vesta/ de cento ben conteste/ tinte in trapunto velo/ indaco e blu de cielo. Nella cangiante tavolozza di Scataglini compaiono anche un'inevitabile porpora, nonché sfumature coloristiche rese grazie alla suffissazione: Violette,/ pervinca, vermigliette/ bianche.
La sequenza, sostantivale e aggettivale, ricorre frequente, segnale, come nel caso dei colori appena esaminato, di un'area semantica feconda di possibilità espressive in sintonia con il tono arcaicamente prezioso del poema. I cumuli riguardano alberi (Olivi, faggi, olmi/ c'era, nodosi e colmi/ cipressi, aceri, abeti), frutti (mele, pere/ giallette prugne e nere/ noci, castagne, pesche...), animali (daini, caprioli, [...] scoiattoli). Gli arredi, insomma, insieme preziosi e irreali, di un arazzo gotico, dominato da un febbrile, ma stilizzato e armonioso horror vacui.
L'elaborazione preziosa e artificiale di scene e costumi trova corrispondenza in una sintassi che (in contrasto con la linearità del poema duecentesco) privilegia disposizioni innaturali entro l'ordine delle parole della frase, e sperimenta ad oltranza le figure retoriche per ordinem, quali l'anastrofe e l'iperbato (Pose qui con bravura/ una vasca, natura; oppure con forzatura sintattica al limite della violenza, Fin dai tempi de Carlo/ ve dico, non straparlo,/ non se vide, e Pipino,/ conforme a quello un pino, da confrontarsi con il blando originale: Mes puisCharle ne puis Pepin/ ne fu ausi biaus pins veüz).
Nella Rosa agiscono dunque immagini figurativamente preziose e lingua acuminata, che poggia sulla convivenza di un lessico sempre ricercato (commisto di francesismi, termini rari e poetici, tecnicismi, punte di quotidianità dialettale o colloquiale) con una sintassi piegata e presiosismi letterarissimi.
Il rapporto del poeta con la tradizione lirica è da sempre intensissimo, come risulta dalla scelta stessa di tradurre la Rose, e orientato soprattutto sulla poesia duecentesca. Era un'opzione ideale già ampiamente esercitata nelle raccolte poetiche precedenti, che presentavano, come evidenziato da Segre, scoperte presenze di autori e testi prediletti, come Giacomo da Lentini e lo stesso Roman de la Rose. Ma agivano anche ricordi di una linea lirica estravagante rispetto ai modelli d'elezione, con settenari, per esempio, di scoperta matrice iacoponica, magari ironicamente rivisitata: Guàrdame in sta caduta/ fiato roto, disfato. Oppure: Tortura e febre a caso/ me viene drento e moro. L'estro di irridente falsario continua nella Rosa, dove si affacciano tessere di linguaggio lirico altissimo, magari prelevate pari pari da un originale anche molto noto, ma per questo tanto più straniante nel nuovo, ibrido contesto. Per esempio Come diaffan da lume è paragone cavalcantiano, mentre petrarchesco, e abusato, è il sintagma bei rami. Tali punte liriche convivono poi con ironiche incursioni nel quotidiano, con versi come quelli che descrivono un giovinetto [...] bello e biondetto, che amato/ traeva, de l'amante,/ fiumane de contante.
Dunque il preziosismo agisce a tutti i livelli, e tende a identificarsi con la limpidezza figurativa.
Per questo è forte la tentazione di leggere come una dichiarazione di poetica riferita all'intero libretto - astraendoli dal contesto - i due versi che anticipano in effetti la descrizione della fanciulla guardiana del giardino, Oziosa (versi, pare quasi superfluo precisarlo, assenti nel poema francese): perciò iè metto in rima/ l'aghindo ricco e strano. I due aggettivi, che ritornano in coppia anche in un altro punto- evocano, se si continua il gioco di immaginarli riferiti alla poesia di Scataglini, da un lato l'eco dei versi strani dell'Inferno dantesco, velame di complesse allegorie; dall'altro la categoria stilistica del trobar ric, variante onomastica del trobar clus, il più ermetico, colto, arduo filone della poesia provenzale. Si vorrebbe dunque riconoscere l'aghindo ricco e strano non solo nel giardino e nei suoi abitanti, ma nella ammaliante lingua poetica che li descrive.

 

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di Mariarosa Bricchi in "L'immaginazione" 99-100 novembre-dicembre 1992 - Piero Manni Editore (Rivista).