Introduzione di Franco Brevini

Dopo alcune insoddisfacenti prove in italiano (di cui solo la prima edita nel 1950, con l'eloquente titolo Echi, alludente ad una ricerca fondata su suggestioni estese all'intero arco della tradizione lirica) l'anconitano Franco Scataglini approda nel 1973 al dialetto, pubblicando nel corso di un decennio tre raccolte, che lo hanno allineato ai migliori poeti contemporanei. Nel panorama dialettale la sua opera si distingue per piu' di un tratto, fino a diventare un caso in qualche modo a se'. E per cominciare occorrera' notare lo scarto minimo che il suo anconitano, come tutti i dialetti centro-italiani, presenta rispetto alla lingua. Questa caratteristica del mezzo viene utilizzata da Scataglini in tutta la sua funzionalita' per la composizione di una poesia, che, non solo assume le distanze dalla produzione vernacolare marchigiana, ma addirittura opera una drastica riduzione di ogni spessore etnico e culturale legato al dialetto. E questo e' un altro elemento che distingue l'opera di Scataglini da quella dei dialettali contemporanei, che attraverso il loro, strumento intendono di solito testimoniare anche la realta' antropologica che lo ha prodotto. Per il poeta anconitano - che non a caso scrive in un vernacolo cittadino, anche se di una periferia 'ntra campi e cita'», come il milanese Franco Loi, con il quale ha in comune una poesia nutrita di una componente intellettuale - il dialetto e' una semplice intonazione popolare, su una tramatura largamente italiana intessuta di cultismi, con cui egli si propone di rispondere al bisogno, peraltro saltuariamente affiorante nel corso del Novecento (dai crepuscolari a Saba e Penna), di una lingua capace di colmare la secolare frattura apertasi tra parlato e scritto, quotidiano e letterario. Mentre la deviazione linguistica di molti dialettali nasce anche dalla volonta' di testimoniare una diversita' culturale, nel caso di Scataglini siamo in presenza di un fenomeno in primo luogo espressivo. Il suo ricorso all'abito dialettale nasce dall'impraticabilita' dell'italiano della convenzione letteraria, avvertito come lingua `frigida' (l'espressione e' dell'autore) per l'esercizio della poesia. In tal senso il dialetto risulta appena un metaplasmo della lingua, estraneo ad ogni estetica dell'intraducibile. Il modello per questa operazione gli sarebbe stato offerto da un poeta popolare marchigiano del Cinquecento, Olimpo da Sassoferrato, di cui Scataglini si sarebbe fatto editore l'anno successivo al suo esordio dialettale. Ma proprio il singolare sapore romanzo della lingua di Scataglini, insieme a tutta una serie di indicatori culturali, dalle soluzioni metriche al titolo della prima raccolta, E per un frutto piace tutto un orto, tratto da un verso di Jacopo da Lentini, dimostrano come il poeta guardi soprattutto a quella fase della poesia italiana precedente l'imporsi del canone bembesco, che avrebbe consegnato i volgari al ruvido statuto di dialetti. L'arcaismo della lirica di Scataglini, a parte piu' interne ragioni di obliquita' espressiva, mi sembra corrisponda al bisogno di ricollegarsi ad una stagione della nostra tradizione in cui la dialettalita' non e' ancora `riflessa' e puo' dunque offrire alla poesia il proprio contributo di concretezza, senza peraltro scadere nel popolaresco, rispetto al quale costituisce piuttosto un antidoto.
L'obiettivo di tale ricerca e' dunque offrire alla poesia il proprio contributo di concretezza, senza peraltro scadere nel popolaresco, rispetto al quale costituisce piuttosto un antidoto.
L'obiettivo di tale ricerca e' dunque propriamente una lingua non un dialetto e lo sconfinamento nell'area dialettale (dove tuttavia il popolare viene ricondotto alle matrici letterarie delle origini) non e' che la conseguenza della scarsa funzionalita' poetica dell'italiano. Scataglini non ha scritto in dialetto: semplicemente non ha voluto scrivere in lingua. Il suo dialetto e' un'effrazione. Il risultato finisce infatti per essere un linguaggio inesistente in natura, rustico e prezioso ad un tempo, un codice in parte reale e in parte inventato, che uniforma i vari apporti lessicali (a questo livello il tratto piu' saliente e' l'ampiezza di escursione del lessico, che va dal termine iperletterario o filosofico alla punta idiomatica) attraverso la velatura anconitana. Questa operazione e' stata possibile a Scataglini grazie alla particolare fisionomia del suo dialetto, che evoca immediatamente l'orizzonte della lingua, a differenza di altri sistemi dialettali caratterizzati da un maggiore scarto rispetto ad essa.
Fra l'altro, forse anche per questo, il dialetto non e' mai usato da Scataglini in termini denotativi. Egli preferisce invece un impiego metaforico, polisemico, fondato sugli spessori evocativi della parola dialettale (Fiare/meridiane letteralmentefiammelle/meridiane», in realta' l'apice luminoso delle piccole onde quasi immote sotto il barbaglio del sole»). Al punto che si puo' presumere che proprio una singola parola dialettale costituisca il nucleo generatore della poesia.
La prima raccolta e' un vero e proprio canzoniere amoroso, in cui l'autore gioca sul contrasto tra i referenti letterari illustri (si veda ad esempio il senhal, che dall'epigrafe e' rilanciato nella poesia dedicatoria) e la pronuncia di sapore popolare (il canestro», sempre del testo d'apertura, nel quale, simile a un poeta-contadino, l'autore custodisce i suoi frutti; o i lupini, al cui plebeo biondo sono ricondotti i capelli dell'amata in un'altra composizione). L'esito ironico che deriva da tale contaminazione vuole essere un correttivo al patetismo dell'io, la cui presenza risulta inevitabilmente eccessiva in un genere come questo, ma anche in una poesia che non ha ancora saputo conquistare l'oggettivita' dei testi piu' maturi. Eppure sin d'ora si rileva il bisogno di assumere le distanze, di congelare la propria materia - secondo uno stilema che risultera' costitutivo della lirica di Scataglini - sia attraverso la cornice letteraria in cui la raccolta viene calata, sia soprattutto attraverso la rigorosa griglia metrica di quartine di senari o piu' spesso di settenari rimati, che non conosce per ora eccezioni.
L'approdo ad una misura metrica breve e' in primo luogo legato alle caratteristiche fonetiche dell'anconitano, che, con le sue frequenti apocopi, non avrebbe potuto reggere la cadenza dell'endecasillabo. Il settenario di Scataglini non e' tuttavia quello cantante settecentesco, ma, in linea con l'arcaismo che caratterizza tutta la sua operazione, quello icastico e assertivo delle origini. Il risultato sul piano tonale non e' infatti il falsetto, ma un canto rallentato, fortemente scandito nei suoi nuclei verbali, grazie alla nominativita' di questo verso - e infatti le parole si accampano quasi dotate di un rilievo tattile in un'atmosfera rarefatta, circondate da silenzi che le isolano, al punto da suggerire un orizzonte di riferimento, che, nel caso della poesia di Scataglini, non si estende all'unita' del verso, ma si limita a quella della parola stessa - sperimentato da Marin, Saba, penna (piu' che da Caproni, che inclina piuttosto alla musicalita'), del quale Scataglini si avvale come di una pudicissima maschera. La raccolta infatti, al di la' della sua intonazione stilnovistica, e' dominata da una vera e propria ossessione dei sensi, alla cui ombra il poeta oppone la tensione verso un'apparizione luminosa (la dalia gialla» di Chi ha capito `l mondo o i fruti loti» i cachi, che si accendono nell'orto del testo eponimo del volume), evidente allegoria insieme della donna e della poesia, sole promesse di lievitazione, di purificazione additate all'uomo. Il libro documenta lo spasimo, che l'autore dice d'angelo e d'animale» (e piu' tardi di pedochio e dio»), con cui egli si sforza di sfuggire alla prigione del desiderio e dunque alla morte. Gia' qui si impone quella polarita' di sconfitta e evasione, che si rivelera' decisiva per la seconda raccolta. Il testo finale di E per un frutto piace tutto un orto (Teatrini d'ombre), approdando alla scoperta dell'impossibilita' di conoscere l'altro, se non come proiezione del proprio desiderio, segna comunque il congedo dall'esperienza del canzoniere amoroso.
Il venire meno di un'unita', per quanto esterna come quella tematica, che ordinava la prima raccolta, prelude evidentemente alla struttura aperta del volume successivo. Eppure se So' rimaso la spina si presenta come un diario lirico, abbandonato alla casualita' del quotidiano e dunque privo di qualsiasi organizzazione interna, vanta tuttavia un elemento unificatore nel riproporsi ossessivo di una condizione, che si rinnova identica pur nella varieta' delle occasioni: il soggetto teso verso una realizzazione che risulta continuamente impedita (ritornano le immagini di oggetti irti, spinosi o prensili e le azioni del ferire, dello stringere e dello sciupare). Ma la risposta del poeta allo scacco dell'esistenza e' la scancelatura» (il termine passa da una raccolta all'altra), cioe' la sottrazione, la rimozione in sostanza della dimensione morale - ma in El senso del mio testo nel primo libro, riferendosi alla chiamata religiosa, egli aveva dichiarato che assenza de quel gesto/da sempre me tortura». All'opposto si situa invece l'alibi vitalistico di Tuto e' corpo d'amore nel nuovo volume - e lo spostamento invece del problema sul piano estetico. In luogo di discendere nell'anima de garbó», di conoscere le fieze brune» del proprio albero, di immergersi insomma nella buiosa» della condizione umana di cui parla in Carcere demolito, che si rivela un testo-chiave per la conoscenza della sua geografia interiore, il poeta volge lo sguardo verso i cucali rosa», che si allontanano dalla cloaca incontro al mare aperto. Il dramma e' insomma sostituito dall'elegia. Sopra il vulcano - secondo l'immagine di Becquer recuperata in un testo del volume del `77 - si alza sempre il fiore. La materia dell'autobiografia, greve fino alla crudezza, viene sospinta verso l'illimpidimento, la nitidezza, il so'no lindo» di cui parla la poesia di apertura, ottenendo effetti di totale risoluzione, di perfetto accoglimento negli stampi metrici, come dimostrano la corrispondenza pressocche' costante di unita' metrica e unita' sintattica e la mancanza di rotture dello schema strofico. E' alla luce di questo `pathos della distanza' che acquistano il loro senso piu' autentico il bisogno di arcaismo e di obliquita' espressiva sopra rilevati. Il fiore de la malva» cresciuto fra le rovine sembra promettere una salvezza troppo a buon mercato, come quella del carcere demolito aperto soltanto ora alla liberta' dei cieli, senza che l'esistenza abbia cessato di essere una costrizione. In questa fase il poeta pare convinto che basti testimoniare la bellezza, senza compiere ancora quell'attraversamento della tenebra, quel confronto con il negativo, che lascera' la sua sanguinosa traccia anche nel titolo della raccolta piu' matura, Carta laniena (dal latino laniena, che vuol dire macelleria», ma anche lacerazione»).
Nel libro dell'82 i materiali metrico-formali appaiono per la prima volta sottoposti alla tensione di forze contrastanti: da una parte, soprattutto a livello sintattico, si assiste a una crescente condensazione del discorso, ormai prosciugatissimo, ridotto a densi blocchi verbali, in molti casi addirittura ablativi assoluti, costruiti con violente ellissi (non e' casuale il repêchage di alcuni testi dalle raccolte precedenti per sottoporli ad una piu' sintetica versione). La figura dominante e' l'iperbato. Dall'altra parte si rileva invece una tendenza, piu' evidente sul piano metrico, a spezzare le griglie, sia a livello della corrispondenza tra verso e frase, dove si impongono duri enjambements (me'ntova de la bassa/riva el malo portento»), sia a livello strofico, dove si nota una incontenibile frantumazione delle unita', con conseguente incrinatura della compattezza anche tipografica degli organismi testuali. Questa incapacita' di arginare il disordine sembra la conseguenza dell'evento che inaugura e fonda il libro stesso: una perdita di centralita', una caduta, che rompe lo stato di inerzia precedente (quando da soto el bome/de l'a'rboro de l'Arca/sventai come `na cesta»). Da questa nuova condizione di sgretolamento e di deiezione (si veda la ricorrenza delle voci brecio», graniglia», ghiara», sbreciasse», ciuga'ia», falla'», sfaia'», ecc.), scandito nelle tre sezioni, che segnano altrettanti momenti della vicenda, il volume sviluppera' il racconto dell'attraversamento di cui si e' reso protagonista il personaggio.
La prima sezione, inaugurata da La fabrica del ponte, con evidente allusione ai crolli dell'edilizia interiore citata in due testi, si muove dalla brama/che m'ha cegato e vinto», che ha il suo simbolo araldico nel minotauro (mez'omo e mezo toro»), destinato a ritornare, ormai fossilizzato nella materia inerte dell'esistenza, nel bucranio scolpito sulla facciata del mattatoio, nel poemetto che da' il titolo alla raccolta. La seconda sezione rappresenta la catabasi, l'immersione nell'inferno in cui va i a'ngioli a lo sciupo» (Tuta t'ha traversata/stanote, via de morte,/vita, la bandonata/de vechio ombra de sorte»). Il poeta tenta faticosamente la propria strada fra tante vittime (il freak Paganelli; Pasolini, protagonista di Philodemon; anonimi personaggi tratti dall'autobiografia e dalla cronaca), riconoscendo il proprio e il comune destino, fra storia e alegoria», nell'immagine del mattatoio, dilatata fino a fare del mondo un'immensa camera della tortura. Infine nella terza sezione si delinea l'ipotesi di una salvezza. Il naufrago della terzina che inaugurava il volume viene finalmente tratto fo'r da le mischie nere», non senza un probabile intervento divino, mentre la notte del passaggio e della malattia cede ormai all'alba, gioia del giorno». Il testo conclusivo, Explumeor, che rinvia, attraverso la voce in francese antico, ad una condizione paradisiaca, appare pervaso da una inedita fiducia escatologica. Il nuovo quadro in cui il poeta si muove e' tracciato nella sezione Ne varietur, che sembra rivendicare la stabilita' di un rilevante punto d'arrivo. All'ingiustizia del mondo, tematizzata attraverso la divisione dal padre e rappresentata nel supplizio della baroca//autodafe'», egli oppone la fuga dell'uomo inabile alla lotta, che lascia pero' in mano ai persecutori la spoglia del lenzuolo evangelico di cui parla Marco (14, 50-2), evidente allusione allo statuto della poesia. E' di nuovo una bianca apparizione nella tenebra, come i fiori o i frutti che rilucevano negli orti, ma questa volta ha attraversato le strade [...]/sconesse de l'Ade» insieme all'uomo che la indossava e che la spicca da se' per donarla ai suoi simili.
Questa natura della poesia come lieto acidente» che si stacca dalla pena del vivere si ripropone anche nei testi piu' recenti, riuniti sotto il titolo Laudario, in cui si prolunga anche l'immagine del tempo come dimensione dell'adempimento e non dello sciupo», della de'pense, gia' rilevata nel finale di Carta laniena. Oggettivazione totale e sintassi sempre piu' ellittica, affidata a corto-circuiti quasi onirici, risultano i caratteri piu' evidenti di questa poesia, che sembra incrementare la sua frammentarieta', come di enigmatici reperti scampati ad una catastrofe.
Sul piano linguistico, senza scadere nel tratto idiomatico, si registra tuttavia il ritorno ad una pronuncia piu' prossima al quotidiano e al dolce modo» dell'esistenza comune, che incoraggia il riaffiorare di immagini della memoria, pur accampate su uno sfondo tutt'altro che idillico. Parallelamente si assiste anche alla riduzione dei cultismi e piu' in generale delle voci estranee al sistema, eventualmente translitterate secondo la grafia popolare (uint serf», giumbo», Gio'nni», ecc.).
La figura che sembra caratterizzare a livello profondo Laudario non e' piu' l'ossimoro, la nuda contraddizione, l'opposizione bloccata delle precedenti raccolte (Mez'omo e mezo toro», piazale breve/eterno», via de morte,/vita», ecc.), bensi' l'antifrasi, nel senso dell'affermazione di un nuovo valore mediante quei dati di realta' vissuti in precedenza come sedi di negativo. Si passa da una situazione congelata a una situazione in evoluzione e la precarieta' esistenziale diviene essa stessa un valore in quanto sola via alla realizzazione. In tal senso si veda il mutamento che subisce il desiderio amoroso (desio»), visto in precedenza come tara e lacerazione, ed ora trasformatosi in esperienza di comunione umana (l'amata che era sentita come ombra, e' riproposta come apparizione luminosa, Ino-Leucotea per un naufrago Ulisse).
In questa direzione matura anche il superamento di una prospettiva nella quale il soggetto occupa tutto lo spazio, a favore dell'apertura ad una dimensione cosmica, in cui le opposizioni si sciolgono nel moto della totalita' (la vita e' piu' antiga/rispeto a la mente»).
La raccolta, proseguendo sulla linea inaugurata da Carta laniena, possiede un andamento poematico, che delinea un percorso dall'esistere come condizione di incertezza e rischio all'esistere come esperienza di compimento e di estinzione, nel corso della quale il soggetto accetta i limiti della propria individuazione. Nella Ghia la cieca volonta' di durata del singolo e' chiamata a commisurarsi con altre modalita' dell'essere (le celesti [...]/del movimento eterno//ro'te»). La soglia bigia costituisce un momento di sospensione: Milano, recuperata alla memoria infantile, rappresenta lo spazio simbolico di un'attesa, di una condizione di indefinitezza tra il bianco e il nero, tra la vita e la morte. Con Passeggero, sequenza originata da un fatto autobiografico come la perdita del fratello, il senso della morte, in precedenza mera esperienza di distruzione, e' vissuto invece in quanto misterioso transito (rondini in tragitto/per la valle dei re»). Le due sezioni successive costituiscono il cuore della raccolta. Ricognitore notturno, che prende le mosse da frammenti di memoria e di sogno legati al tema della guerra, allude all'inquieto solcare le tenebre dell'anima caduta nel mondo (sorpresa in ambascia/sa'goma d'argento») e continuamente esposta al rischio della perdita. E infatti la sezione presenta una galleria di personaggi e figure, alternativamente sommersi o salvati, sui quali si distende una comune pietas. Ricercari dischiude un nuovo scenario della vita, in cui acquistano rilevanza gli elementi della continuita' dell'essere (suspinti dal fluto,/va fiori e radici») e della riconciliazione. Si veda a tale proposito il congiungimento di rovo e mirto, le piante simboliche del testo omonimo, in cui tra l'altro si saldano anche deviazione dialettale e norma illustre, ormai sentite come i poli di un'opposizione operante non piu' a livello dell'esistenza, ma soltanto a livello dell'ideologia.
A questo punto con Rosa la raccolta si concede un momento di abbandono alla figura dell'amata, recuperata come immagine di auroralita', attorno a cui i segni negativi del mondo si dispongono ormai solo come possibilita' e non come necessita' (si veda l'immagine della bambina che resiste con la sua grazia su l'orlo del disastro»).
Proprio per questo le ultime composizioni, riunite nella sezione Su la neve, possono consegnarsi al registro dell'elegia, in quanto forma dell'accettazione di un destino, che e' di estinzione e insieme di compimento (muri' de compimento»). Congedatosi dai miti dell'io, il poeta si e' potuto aprire all'apparizione del mondo nella sua contradditorieta'. Ma in quello stesso istante gli e' potuto risultare finalmente chiaro che il mondo e' il luogo dell'imminenza di un senso. Le trombe, spaesate,/sonava ma persa/la vita in mai state/cuntrade-diversa». Quella intenzionalita' che aveva spinto Scataglini, come ogni altro dialettale - ma forse con piu' evidente scarto polemico proprio il poeta anconitano, che aveva fatto ricorso ad un dialetto a deviazione minima rispetto all'italiano - a rifiutare la lingua della tradizione letteraria, per ricercare altrove il suo strumento espressivo, nasceva come in altri dialettali dal bisogno di testimoniare una macchia, una grevitas, un'offesa. Proprio questa interpretazione della storia, che aveva fondato l'operazione di Scataglini, cessa ora, al termine dell'attraversamento compiuto dall'autore, di essere sovrapposizione programmatica, rivendicazione soggettiva e diviene scoperta di una tensione e di un'attesa interne alle cose, ansia di un orientamento, incombere di una teleologia. la poesia dunque come epifania di quel senso imminente, al quale non cessarono mai di guardare gli `spaesati' di ogni tempo, che quel mito delle contrade mai state riempirono ogni volta delle forme storiche della speranza.