Introduzione di Carlo Betocchi

Quante volte vedendo un sasso sruzzolare per una scarpata, nelle mie strade, ho sentito il peso e il dolore della forza di gravita' che ne dominava il destino. E quale tenerezza fraterna ho sempre provato per il sasso, la zolla, gli animali, le piante, per la foglia che parla col vento e per il vento, la nuvola, l'onda: che sono vita, ed esseri e cose, come anch'io mi sento, e come me faticanti lungo la scala della loro evoluzione. Quando nelle mie poesie l'amore s'investiva di un nome (quasi mai pronunciato, era quello di Dio), ora mi accorgo e so che non era nient'altro che la gioia di sentirmi una cosa, una forma, un atto dell'universo: e ora che invecchio, tartassato dalla sventura, nulla di piu' mi sento, e mi credo, di un quarto di manzo appeso al chiodo del macellaio: tant'e' il bisogno di sentirmi concreto e non vaniloquente, quanto piuttosto stretto, e quanto piu' stretto soccorrevole, nella immane bellezza e pericolosita' d'ogni esistenza, che non si estinguera' mai, soltanto mutera'. Sento di disporre moralmente di me stesso nel momento in cui abolisco tutte le prerogative che ogni fede rituale consentirebbe. Quando penso che credevo di avere un'anima (ed in lei una sopravvivenza) e non sentivo il dolore che non l'avesse ogni altra vita di questa terra, il passerotto, la pianta, il verme! Non accetto nessun privilegio per l'uomo: solo servizi.
Sono questi medesimi i termini che fissano la poesia di Scataglini che sta senza dubbio alla pari - per densita' di discorso - con i due o tre maggiori poeti dialettali italiani di oggi. La sua poesia nasce con tutta la sua carne e con tutti gli echi della vita che l'hanno investita, dilettata, tormentata. La parola sorge su dalla carne ventilata del suo paese, del suo mare, delle sue donne. Nasce dal peso, natura, odore, colore, ventura e disgrazia degli oggetti che ha incontrato nel corso della sua vita. In questi incontri si realizza la vera relazione dell'uomo, cosa dell'universo di cui fa parte, e nel cui turbine e' preso.Leggendo le sue poesie ho sentito il peso schietto e naturale della sua parola. Ho sentito anche la sua solitudine; non senza avvertire che laddove si fa grandissima nel Leopardi che le cerca rifugio e sollievo nel risuscitamento di un'enorme cultura, e come si fa grande nel Porta che non sente solo se stesso nel confronto con i difetti dei principi e costumi di una societa' che e' la sua del primo ottocento lombardo; in lui Scataglini essa resta chiusa nella dimensione solamente umana e personale del suo mondo. Ma in tanta e cosi' esatta misura da attingere ugualmente l'autenticita' della poesia: e' d'oro, uno spicciolo d'oro, ma d'oro.
La lettura del suo testo e' stata cosi' intensa e fraterna perche' le ragioni della poesia di Scataglini mi sono vicinissime. Non c'e' spiritualita' intorno a noi, non c'e' intellettualismo. Non c'e' nemmeno il problematicismo pasoliniano perche' anche Scataglini, soprattutto lui, e' nell'universo, e nel suo piccolo universo anconitano sente null'altro che quello che pesa ed e', nella sua interezza ed attuallita', fisica e temporale.
Questa poesia nasce adulta: tanto adulta che, a parer mio, non ci sarebbe stato bisogno di presentazione alcuna per informare, suscitare lettori, definire il poeta: o forse solo per fermare in pochi appunti la sua biografia. Cio' che, del resto, e' stato gia' fatto con grande finezza da Plinio Acquabona per il suo precedente libro di versi, uscito nel `73 con un titolo colto da un verso di Jacopo da Lentini, E per un frutto piace tutto un orto»: un libro che porge digia' schiettissima la figura del poeta. Scataglini vi si confessa privo di studi regolari ma aperto fin dall'inizio, con escursioni rabbiose, a tutto l'arco della poesia europea. Pubblico' nel `50 le sue prime composizioni di derivazione ermetica; ebbe i suoi primi incontri ed incoraggiamenti nei nomi di Sergio Antonelli e Giorgio Caproni (cui l'avvicina la stupenda virtu' della concisione di questi - massima nel recente Il muro del pianto» - che e' anche nettissima nella natura di Scataglini): nella lettura di Saba, Penna, Noventa, Giotti; e con la scoperta del cinquecentesco Olimpo da Sassoferrato, sanzionata dalla edizione di quei Madrigali e altre poesie d'amore» che nel `74 hanno visto la luce a cura di questo stesso editore e con la presentazione, appunto, di Scataglini. Ma e' soprattutto sulla poesia del `200 e quella minore del 3300 che trova la sua vocazione nel proprio essenziale carattere. Perche' tutta la poesia di Scataglini dimostra che il suo intelletto poetico non e' di quelli che vivono della propria solitaria esaltazione ed eccitazione, ma fondatamente attingendo alla sua umana struttura, di cuore, di carne.
Quel che ho brevemente detto riesce appena a dare una prima inquadratura del carattere di Scataglini, realizzatore di se stesso come poeta, nel senso di impegno coerente con i dati di una certa natura e le condizioni in cui si e' trovata: e perche' io stesso ho infilato la strada della poesia nelle medesime impetuose condizioni, e insieme precipitante, acquisizione della consapevolezza necessaria al fine desiderato: ma dai miei primissimi passi, ai primissimi passi di Scataglini corrono piu' di trent'anni: e soprattutto quelli in cui si e' andato sempre piu' delineando, e via via decifrando, l'importanza dello studio e ancor meglio di una teoria del linguaggio, e del suo impiego e impegno nella poesia attraverso il filtro di una sempre meglio accennata coscienza dei diversi caratteri della sua nascita , natura, impiego, davanti alla responsabilita' e fantasia della vita individuale, come davanti a quella delle idee, della storia.
Per quanto mi riguarda, la mia scoperta della poesia di Scataglini era avvenuta casualmente durante la lettura di quella bella rivista pesarese che e' Il Leopardi», diretta e curata da Valerio volpini. Eccezionalmente quel numero de Il Leopardi» doveva essere dedicato alla poesia: Poesia come speranza» intitolava Volpini la pagina introduttiva. Io rispondendo all'invito che era giunto anche a me, gli avevo spedito una specie di belato fatto d'erba, e come al solito una poesia nata a caso, per caso e nel caso di un viaggio fatto in quei tempi, in treno, da Firenze a Roma, da solo soletto guardando la campagna. Come il piu' vecchio che ero, in quel primo numero de Il Leopardi» aprivo la fila dei poeti, subito seguito dai bellissimi testi di Luzi, Parronchi, Guidacci, e poi dai piu' giovani, forse dai meno noti. Cosi' m'imbattei in quel titolo Vita e scritura», seguito dal nome e da tre poesie di Franco Scataglini, che era, anche da solo, l'opposto del mio belato verde, la cui rilettura, per la sua eccessiva vaghezza, mi aveva disanimato. Quel dialetto (che Plinio Acquabona dice meglio vernacolo), quel vernacolo, invece, era cosa: quella cosa era priva dei preconcetti vagamente supposti nei quali nuotavano, annegavano, balbettavano, si smarrivano le parole della mia belata. Quel dialetto era cosa: era cosa come lo e', in un cesto, la cagna che ha figliato, il corposo reale con la sua nidiata di cagnolini, le parole del corposo reale cosi' partorite dal linguaggio di Scataglini. I sostantivi - e' un fatto constatabile - gremivano il corpo dei versi; e la dizione vernacola strizzava sostantivi verbi e aggettivi al ristretto necessario ad intendere le cose che volevano, l'affetto che le sentiva.
Sempre leggendaria per me la forza dei dialetti, dei vernacoli, stretti adosso ai fatti, alle cose, in quel poco che c'e', che sono: sempre state cosi', leggendarie per mio bisogno di sentirmi vivo, vero come sono, ed in piedi: nella mia propria, discola, (magari plurale cioe' popolare), ma non illusoria figura: desolata del proprio lirismo, quando mi avviene di caderci; pronta a purgarsene facendomi uscire a parlare, alla prima mozione di affetti veri, e soprattutto in casa, con chi amo o con chi mi piace, con la parola, o la battuta in dialetto, questo o quello, sentite tra i soldati in guerra (la prima di questo secolo), o nei cantieri, nei campi, o per le vie cittadine, dagli artigiani. Sempre sentito e capito che dopo i due gran momenti nazionali del primo ottocento (Porta e belli), che stupendamente si contraddicono, da Milano a Roma, come divario di costume, di intenti, di sensibilita' (e perche' no di sangue?), e nella disfida dei quali, sottintesa da chi ci ripensa, sembra ci sia tutta la storia della nostra Italia, dall'ottocento in poi, tanto da fare anche da cupola, o popolare ombrello, alla poesia dei massimi sistemi, dagli Inni sacri» ai Canti», dai Canti» via via precipitando al resto... Che' poi, per noi del novecento primo e secondo, coi vizi in cui andavamo nascendo, rispetto ai due gran fiati potenti, la nuova poesia dialettale doveva venire soprattutto a confessarsi nell'io che siamo, stretto come un giubbetto, pungente come un callo, spirante come un che d'ubriachezza presa per celia ed espressa per buona: seppure a cavallo tra l'otto e il novecento - nel modernismo del gran Salvatore Di Giacomo - riuscisse tutto a ridursi in lirico canto, che va che viene, s'illumina di luna e torna a spezzarti il cuore (troppo idillico canto, come ben dice Domenico Rea, per la realta' di quel popolo) tuttavia questione strettamente mediterranea, e pura lite che ride e che piange tra l'uomo che e' l'uomo di la', e il cielo, l'amore e il mare.
Dopo di che, dopo questa grande sbandata che ho fatto in una storia che al mio affetto e' sembrata reale, la piu' reale di tutte, chi sta leggendo avra' almeno capito di che sia foderato l'umore che mi tien caldo e quale occasione, infine, sia stata per me l'incontro con la poesia di Scataglini; e la riconoscenza che sento per lui che me ne ha dato motivo.
Perche' difatti quel che dicevo prima della sbandata, e che riguarda la sua poesia, non e' che una parte della verita'. L'altra posa in me come lettore dei suoi versi, si fa una sola cosa con lui, e il disperarsi ed amare e guardarsi d'intorno tra il libero spazio e le mura di un carcere demolito dove Su `l spiazo in abandono - c'e' `l fiore de la malva. - Se `l vive non se salva, - muri' basta al perdono».