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Il topos del giardino nella
poesia di Franco Scataglini
C'e' chi lascia un poema
e chi non lascia niente
... Pero' te m'hai inganato,
vechio, e pe' non mori'
muto com'eri stato,
m'hai lasciato un giardi'.
Cosi' Franco Scataglini per
il padre, con pudore di parole teneramente prosciugate, nella
sua prima raccolta di poesie, E per un frutto piace tutto un
orto (1968-72). La ricchezza piu' grande che un genitore possa
lasciare al figlio, cioe' quel patrimonio interiore fatto di
amore e di cose non dette ma trasmesse nel semplice gesto oblativo,
e' dunque tutta racchiusa in quel giardi' che assolve la funzione
di clausola poetica perfetta, risuonando lucida, quasi argentea,
a fine verso; per il lettore di Scataglini e' il primo incontro
con questo `topos' universale, presente nella letteratura di
ogni paese e di ogni epoca, sinonimo di armonia, letizia, gioventu',
riparo dal male. Ma nella poesia del nostro autore esso assume
una valenza particolare, connotando soprattutto, come vedremo,
l'altrove perfetto, il luogo dell'anima piu' segretamente sognato
e ricreato, l'armonia stessa nel suo farsi e nel suo essere,
fissata in quella sua peculiare, caduca perfezione.
Se questo vale soprattutto per il poemetto La rosa (1), in realta',
ripercorrendo con attenzione tutta l'opera di Scataglini, ci
accorgiamo che il termine `giardino', unitamente a quello di
`orto', ha un raggio semantico molto ampio e rappresenta una
costante della sua scrittura poetica.
Orto-giardino, una bipolarita' che pare sottolineare la doppia
anima - straordinaria - del linguaggio poetico di Scataglini,
novita' assoluta della nostra storia letteraria: si tratta di
una scelta espressiva a ritroso, fortemente connotata dall'arcaismo
del dialetto anconetano (pur non essendo una poesia dialettale
in senso stretto) con le sue forme idiomatiche popolari, e dai
richiami all'italiano delle origini, con cui il dialetto si sposa
perfettamente in un impasto originale di tradizione colta e quotidianita';
una lingua insieme modernissima e antica che non ha nulla di
artificioso, anzi ha vita piena proprio in virtu' di questa fusione
che non credo abbia uguali nel panorama della moderna poesia
italiana.
Quotidianita' popolare e nobilta', allora, nella lingua come
nei temi: popolare l'orto, con le sue verdure umili (l'azzurra
cavolaia e le bietole, e poi malve, finocchi, ortiche...), con
le sue reti sbilenche di periferia, corrose dalla ruggine del
tempo ("La pazienza de i orti/dietro a le reti lasche...)
(1), orto che viene in rilievo attraverso semplici dettagli denotativi;
nobile il giardino, splendido di alberi e profumi, di canti melodiosi
e colori, e soprattutto sempre pieno di rose.
Questa antinomia colpisce subito, dalla prima lettura, come se
l'occhio del poeta che contempla s'innamorasse alternativamente
dei due paesaggi (che sono poi luoghi dell'anima e della memoria)
e trasferisse in questa particolare bipolarita' anche il linguaggio,
dove pero' essa si annulla e si fonde con il senso piu' vero
della lingua e del cuore.
Tutto sommato mi pare che si tratti, con le dovute differenze,
della stessa posizione linguistica di Sandro Penna (forte la
influenza del poeta perugino sulle liriche piu' brevi di Carta
laniena (2) il quale ha sempre usato un linguaggio nobilmente
popolare; caratteristica comune ai due poeti, oltre alla forza
analogica fulminante, e' pure la levita' dell'espressione, anche
nei momenti di maggiore tensione lirica, la consapevolezza, cioe',
di possedere un patrimonio culturale prezioso che arricchisce
la parola poetica senza pero' mai offuscarla con pesantezze erudite
fuori della vita.
Il fascino di questa poesia e' allora nel confronto continuo,
ora turbato ora lieve, con la densita' e varieta' della vita,
nella instancabile sollecitazione emotiva che mai pero' oltrepassa
cio' che per la misura umana e' incessante fluire. Ed e' proprio
in virtu' del costante riferimento alla natura, ai paesaggi,
alla forza del sangue che anche la parola piu' astratta diventa
viva, penetrante, essenziale: per il riverbero costante della
realta', per quel senso del terrestre e della caducita', per
lo stupore asciutto, dominato al massimo, del poeta di fronte
ad ogni passione.
La forza analogica della poesia di Scataglini si manifesta pienamente
gia' dalle prime raccolte, caratterizzate da una rara pulizia
espressiva (prive, cioe', di quel `rumore delle parole' che aborriva
Caproni): tutta o quasi la produzione del nostro autore precedente
il poemetto La rosa e' stata poi riunita da Scheiwiller nel Rimario
agontano (1987), antologia attraversata dal `topos' del giardino
con straordinaria continuita'. Si rileggano poesie come Banchine
invernali (3): "Framezo bite e cavi/come trova' un giardi'..."
oppure Portonovo (4): "La rosa de clausura renvoltata `ntra
i spi'/pe' te vuria scarpi'/for de la rete scura/de `n giardi'
abandonato..." dove appare per la prima volta l'immagine
della rosa, splendida e inaccessibile, chiusa in un giardino;
si tratta della prima configurazione della visione che rappresentera'
il fulcro e `il sugo della storia' del successivo poemetto, dove
il tema assumera' pero' ben altre valenze filosofico-metaforiche.
A proposito delle poesie ora citate si potrebbe aprire un lungo
discorso, parallelo e complementare all'argomento in esame, sull'eros
di Scataglini e sul singolare rapporto del poeta con il mare
Adriatico: un eros dominato, spesso malinconico e fuggitivo,
quasi rivissuto in una contemplazione marginale che non apparta
ma coinvolge nella meditazione sulla caducita' di ogni evento
umano ("Amore mio, c'e' andata via/ la vita... cinigia/de
tabacco sul miele" (5), un amore che puo' cuocere "come
`na mugelina" e spolpare fino a far rimanere l'amante solo
l'ombra di se', "la spina", appunto, o, quando muore,
presentarsi nella sua serialita' piu' ovvia, dopo il film del
sabato sera, quando "...se chiude la porta/dietro do' teste
nere/piene de roba morta/come tute le sere." (6)
Ma questo discorso ci porterebbe troppo lontano, come del resto
quello riguardante il rapporto del poeta con il `suo' mare, un
Adriatico familiare, con i piccoli pesci da mercatino rionale,
dove si possono trovare cicale e datteri di mare, agore e mugeline,
un mare non incombente ne' imperioso ma costantemente presente
nel linguaggio poetico di Scataglini che da esso trae continue
similitudini, sinestesie, metafore (navi, spesso navi fantasma,
il porto, le nebbie, i gabbiani ecc.).
Questo che definirei sguardo minimale si posa con la stessa intensita'
sugli interni, poveri e popolari, con il linoleum e i letti sfatti,
vecchie stufe e mensole, graniglie sbrecciate e mollette, panni
sulle seggiole e lavandini: uno sguardo carico di pieta' per
ogni umana cosa, per ogni realta' dove `tuto e' corpo d'amore'.
Scorrendo Rimario agontano ci colpisce - sempre - questo rispetto
per le care cose quotidiane, quelle della fatica umana e tra
le quali si svolge la nostra vita: "Colombelle umidite/de
le tue ma' d'acquaio/sempre a lava' sfenite/e `nti vetri febraio./Sortiva
le mollette/fori dai pagni stesi/come giace orechiete/de cunilletti
apesi/... La graniglia sbreciata/del lavandi', la stufa/nera
ripiturata/el fioleto, `na cufia..." (7) oppure "-
drento le care puze/de la grande cucina/sul vechio telefunken/
(a stufa acesa caldi)/un organo sona'..." (8). E come la
bipolarita' orto-giardino, questo umanissimo gioco interno-esterno
percorre tutta l'opera del nostro autore con ritmiche movenze
di altalena, perfetto gioco costantemente risolto nei suoi esiti
poetici: la carica umana di Franco Scataglini in esso trova un
ritmo fuso, pervaso di pieta' e sogno. Pieta' e sogno, il quotidiano
e l'altrove, ricercatezze stilistiche e linguaggio popolare stanno
alla base anche del poemetto La rosa (9), apparente traduzione
e rifacimento dei primi 1962 versi del Roman de la Rose, ma in
realta' organica, originalissima costruzione poetica in forma
metaforica per cantare la vita stessa, con i suoi valori e le
sue vilta', le sue bellezze e i suoi miraggi.
Il giardino di Scataglini viene dunque da molto vicino, ma anche
da molto lontano, dalla tradizione cortese e da quella rinascimentale
con il suo ideale di perfetta bellezza e di classico equilibrio;
e ancora una volta e' il linguaggio che compie il miracolo della
fusione poetica con la sua naturale interpolazione di registri
espressivi diversi. Il poemetto conserva l'impostazione medioevale
e l'apparente intento gnomico-morale, ma non si tratta certo
della rivisitazione intellettualistica di un argomento caro al
poeta, al quale non preme il gioco colto e perverso dell'esercitazione
stilistica ad altissimo livello: c'e' dentro - ancora e sempre
- tutta l'umanita' dell'autore, il suo pensiero e la sua statura
morale, il suo sguardo pacato sulla storia dell'uomo. Si tratta,
e' vero, di un incontro predestinato, come afferma Cesare Segre
nell'introduzione al poemetto, ma aggiungerei che esso rappresenta
il naturale sbocco di tutta la produzione poetica precedente
di Franco Scataglini; quel giardino estasiato, pieno di canti
melodiosi, di fiori e di piante, e' qualcosa di piu' e di diverso
rispetto a tutti i giardini della tradizione letteraria, configurandosi
soprattutto come la concretizzazione del sogno, poesia e altrove,
valvola di sicurezza del quotidiano dove tutto e' possibile,
anche l'ironico inserimento di alcuni versi riguardanti la ricchezza
e il capitale: una riflessione socio-politica inaspettata e provocatoria,
in un contesto letterario di antichissimo sapore.
Del giardino e' signore il Piacere, vi domina l'armonia e la
bellezza, poi compaiono tutti i vari personaggi allegorici della
tradizione, da Cortesia a Letizia, da Amore a Gioventu', fino
alla fonte di Narciso, situata "in un bel sito/arcano ed
assolito", circondato da un ordine floreale silenzioso.
Due globi di cristallo dentro la fonte, iridandosi, rifrangono
sulla superficie dell'acqua tutto quello che accade nel giardino
e la bellezza del luogo, ma si tratta di una rifrazione ingannatrice,
di vita-non-vita, labile come l'acqua che la contiene.
A questo punto mi pare che si imponga una riflessione: e' impensabile
che un poeta dello spessore di Franco Scataglini rivisiti un
mito classico tanto per attenersi alla tradizione e (senza voler
fare del facile psicologismo) si potrebbe autorizzare una lettura
diversa: attraverso la bella favola egli forse vuole comunicare,
almeno a livello inconscio, che la gratificazione del proprio
se' nel sogno nasconde sempre il pericolo dell'alienazione, dei
miraggi del solipsismo (non dimentichiamo che all'inizio del
poema aveva detto: "io che traduco el sogno/de un poema
e risogno/da desto quel sogna',/espono qualita'/velate d'aparenza...");
questo puo' essere il senso piu' profondo della favola, cui e'
dato grande rilievo e che ha il compito di preparare ed introdurre
il motivo finale del poemetto, quello del giardino come luogo
del possibile, del desiderio sempre inappagato di appartenersi
e di possedere l'altro, che puo' essere la persona amata, la
conoscenza, la poesia, la verita' o forse la vita stessa, il
suo senso universale.
La rosa, allora, non come semplice storia di un innamoramento
ma come metafora altissima della intangibilita' della conoscenza
e della felicita': nel giardino e' racchiuso ogni umano desiderio
che nel clima della bellezza si materializza in rosa, una rosa
promissiva chiara metafora del sempre desiderato e del mai raggiunto:
"...era idea ed era cosa/quel bociolo de rosa...",
una rosa che mano umana non riuscira' mai a possedere, che rimane
fissa nella sua bellezza di eterna, intravista possibilita':
non a caso e' proprio a questo punto che Scataglini interrompe
il suo rifacimento del Roman de la Rose.
Giacche' se e' vero, come afferma Kierkegaard, che la possibilita'
s'accompagna sempre al reale, il rapporto uomo-mondo e uomo-storia
non puo' essere reso saldo da niente, rimanendo sempre precario
ed affidato unicamente al possibile: da qui la nostra angoscia,
poche' nulla ci e' dato con certezza e tutto cio' che esiste,
per il fatto stesso che diviene, dimostra di essere soltanto
possibile.
Quel bocciolo di rosa, chiuso in un giardino perfetto, rappresenta
dunque l'essenza stessa del nostro cercare, dell'eterna peregrinatio
umana verso ogni possibile felicita', felicita' che puo' solo
essere intravista tra una miriade di spine; ma in fondo, sembra
dirci Franco Scataglini, e' proprio per quell'unica, remota possibilita'
che vale la pena di vivere.
Monte Tezio 27 Agosto 1994
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(1) Einaudi, 1992
(2) da E per un frutto piace
tutto un orto (1968-72)
(3) Ancona 1978-81
(4) da So' rimaso la spina
(1973-77)
(5) da Carta laniena (1978-81)
(6) "Sabato, stesso stampo"
da E per un frutto piace tutto un orto (1968-72)
(7) "Lauda" da So'
rimaso la spina (1973-77)
(8) "Frescobaldi"
da Laudario (1982-86)
(9) Einaudi, 1992
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di Ilde Arcelli (inedito)
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