Qualita' velate d'apparenza

 

Non so se Franco Scataglini credesse, come Gianfranco Contini, alla paternita' dantesca della lunga corona di sonetti intitolata Il Fiore, recentemente pubblicata in una nuova edizione critica dallo stesso Contini (Mondadori, 1984, nelle Opere di Dante a cura della Societa' dantesca italiana). E' tuttavia molto probabile che egli vi credesse: la sua ultima opera, La rosa (Torino, Einaudi, 1992, nella Collezione di poesia»), e' la traduzione non letterale ma fedele dei primi 1681 versi (piu' il 1689?) del Roman de la Rose, di Guillaume de Lorris. Proprio dal v. 1681 inizia Il Fiore, attribuito ormai piu' a Dante, traduzione in 232 sonetti del Roman de la Rose, cui va unito un poemetto tratto dallo stesso Roman , il Detto d'Amore, a noi tramandato da 480 settenari tutti a rima baciata. Il settenario, scelto dall'autore del Detto per corrispondere agli ottosillabi rimati a coppia dell'originale antico-francese, e' un metro molto usato nei poemetti didattici del Duecento, ma e' anche la cifra prosodica e stilistica propria a Scataglini, in tutta la sua produzione, un corpus consistente, molto coerente nelle scelte e sempre piu' chiaro negli obiettivi. Il settenario della Rosa, riunito in gruppi lunghi» di 10 versi (rispetto ai 14 del Fiore ma in significativa opposizione all'ordinaria predilezione di Scataglini per le quartine), sara' dunque fedelta' al proprio ritmo interiore (probabilmente suggerito da olimpo da Sassoferrato, un poeta cinquecentesco, colto e popolaresco», anch'egli marchigiano), ma sara' anche, nell'occasione (vedi le strofette lunghe), un'altra allusione strutturale» al grande antecedente, quell'insieme Fiore-Detto attribuito al plurilinguista Dante. Insomma, La rosa, ci dice implicitamente e discretamente, al modo dei poeti, Scataglini, si pone come novecentesco prologo e completamento della traduzione italiana duecentesca del Roman de la Rose, necessario antecedente della Commedia e vero e proprio nodo della cultura medievale secondo Contini. Non sara' dunque casuale che allo stesso Contini vada ascritta non solo la massima determinazione nell'attribuire a Dante il Fiore e il Detto, ma anche il massimo impegno nel promuovere, in sede critica, il filone espressionistico», quello stesso di cui e' alta voce Scataglini.
Ma c'e' probabilmente ancora dell'altro che puo' spiegarci le ragioni di una scelta tematica e poetica (la traduzione di un poema allegorico duecentesco...) apparentemente cosi' distante dalla contemporaneita' e pure cosi' profondamente in essa radicata, tanto da riuscire a imporsi come una straordinaria e drammatica testimonianza poetica del Novecento. Scataglini scriveva in una lingua speciale» (una vera e propria Sondersprache, come ogni rilevata lingua poetica), un dialetto anconitano progressivamente sempre piu' stretto e concreto, intessuto in fitte trame di citazioni e allusioni tratte dalla poesia duecentesca (e dantesca, specie appunto la plurilingue Commedia), oltre che dalla trecentesca minore. Scataglini si e' rivolto al suo proprio parlato, alle sue specifiche cadenze per essere popolare» (non popolaresco»), come gia' hanno tentato i grandi dialettali» veneti e soprattutto Pasolini, un autore di notevole importanza per comprendere poetica e ricerca linguistica del poeta anconetano. La scelta linguistica assume, per Scataglini, il significato elettivo di un'identita' di destino con chi, emarginato dalla cultura dominante, fa dell'essere muto (che equivale all'impossibilita' di dirsi) il tema obbligato della sua vita». Da cio' deriva la cifra stilistica assolutamente caratteristica di Scataglini, insieme a quella del dialetto, la scelta dei modelli nelle fonti della poesia italiana, quella stessa che nascendo come volgare» dalla dissoluzione della lingua latina, schiudeva, dal silenzio, una nuova cultura». Abbreviare la distanza fra il mormorio interno del parlato» e la scrittura letteraria italiana, codificata da secoli di grande letteratura e ormai ridotta a cadavere disponibile sul tavolo di anatomia». Questa l'idea di Scataglini, perseguita in una continua e coerente commistione di istituti linguistici alti e bassi di contemporaneita' dialettale e di storicita' letteraria, fortemente consapevole dei limiti e dei rischi che una tale scelta segnala e comporta: una distanza temporale e spirituale incolmabile», una dicotomia, una frattura che segnano in modo del tutto particolare il suo percorso poetico. La frequentazione e l'utilizzazione degli altri primitivi», dei predantisti e del Dante plurilingue, alle cui soglie s'arresta la Rosa-prologo al Fiore, non rappresentando allora, in tale contesto, un vezzo snobistico gratuito ma il viaggio», perfino filologico, alle radici della Lingua, la ricerca della cosa», oltre la frattura interiore e i frammenti» del Novecento, dopo la notomizzazione del cadavere» della grande Tradizione letteraria italiana.
In tale quadro e' forse possibile capire perche' questa traduzione si presenti anche come una determinatissima ricerca di unita', di sintesi: come spesso avviene nei grandi espressionisti dialettali» novecenteschi, la rivisitazione delle origini della parola, del proprio parlare materno», comporta la rivisitazione della filologia: entrambe ricerca delle cose», della concretezza dell'essere» (l'aveva del resto gia' ben visto G. Caproni un quidicina d'anni fa: il dialetto era identificato con la cosa») e come tali segno di una frattura primitiva da rappresentare, per sanarla, nella scrittura. La scrittura, come in Pasolini e nei grandi decadenti tende ad identificarsi con la vita, diviene corpo e quindi ricerca dei propri archetipi, innanzitutto linguistici, posto che comunque siamo all'interno di uno spazio poetico: appunto, la lingua materna, primitiva», e la letteratura materna» e primitiva».
Roman de la Rose-Fiore e Commedia sono poemi di sogno» e visione», oltre che la summa di due civilta' letterarie annodate proprio dalla traduzione attribuita a Dante: espongono entrambe il viaggio dell'io», del personaggio-poeta, nelle qualita' velate d'apparenza», alla scoperta del Senso, alla ricomposizione della separazione originaria, oltre l'io. Sogno» e viaggio» linguistico e storico-critico, fino alle Origini della letteratura italiana e alle soglie della sua normalizzazione in Tradizione (nel Padre?): il viaggio poetico di Scataglini ripercorre in novecentesca Stilmischung il viaggio dell'io del Roman verso la Rose, suggerendo magari che dalla perdita delle certezze comuniste paterne (ta'/de fiolo a padre: e' tuto./Per me `futuro e' muto/come la verita'.», 1973-'75) non rimane, a norma di letteratura, che la Rosa (in mancanza delle stelle fisse, ormai scomparse - aveva scritto anni fa Asor Rosa a proposito di Pasolini - non resta che l'Empireo, la candida rosa, il se stesso» che e' l'altro» di cui conviene oggi parlare»). Sono due facce della stessa medaglia: la ricerca di un'Opera, la cosa»-rosa», sia pure per sogno/traduzione interposta, risulta al tempo stesso come una somma dei conti linguistici e poetici con se stesso e con il proprio ruolo nella poesia italiana contemporanea. Nel piu' rilevante intervento personale - il solo marcato dal corsivo - de La rosa:

io che traduco el sogno
de un poema e risogno
da desto quel sogna',
espono qualita' velate d'aparenza.
Percio' diro' in presenza,
nel tempo de l'insiste
quei modi de l'esiste.

Risognare da desto»: chi risogna da desto? L'analizzato-analista e linguista-poeta che rinasce, demolito il carcere della nevrosi (1982: quando da soto el bome/de l'arboro de l'Arca/sventai come `na cesta») e ricerca nuove costruzioni, strutture complesse e significanti (Una no'va edilizia ha progetato el co're)», un Libro ove trovare e rappresentare il sognato: il giardino (come trova' `n giardi'?»), la rosa (La rosa de clausura/renvoltata `ntra i spi'/pe' te vuri'a scarpi'/for de la rete scura/de `n giardi' abandonato/...», gli uceleti (Podere Barcaglione: Tuto el piove e' fenito,/la luce s'arfa' iorna./I passeri ritorna sui fili a fa spartito.//La punta de la biro vuri'a farli sonare./I nuvoli da tiro scavala verso el mare», 1973-1977).
Giardino, rosa ricercati negli anni precedenti sono il luogo del Roman de la Rose-Rosa ove gli uceleti finalmente sonano:

Un gran trilla' argentino
facea colmo el giardino.
Sembrava l'auditorium
de le scole cantorum,
pero' tuti ucelleti:
cantori e musageti.
Sentivo rosignoli
framezo ai altri stoli,
ghiandaie con stornelli,
merli e tordi sasselli,

(...)

Le gole acute o basse
tute de superasse
bramose drento al canto
sorti'vane al discanto.
Com'era conturbante
quel'armonia incesante!

(...)

Nel percorso linguistico-poetico e analitico-esistenziale di Scataglini l'incontro col Roman de la Rose-Fiore/Detto era veramente, in questo senso, predestinato»: dal carcere» al sogno», dal dialetto-cosa ad una lingua intersezionata sempre di molteplici registri ma nella Rosa piu' varia e unitaria che mai (di tono fiabesco», come l'ha definita C. Segre, che ne ha steso un puntuale regesto nell'introduzione: duecentismi italiani, provenzalismi danteschi, francesismi, anche ironicamente reinventati, elementi familiari e ricercati accostati, inserti in latino, reminiscenze colte, rime difficili e rare, ecc.): il risultato e' dotato di quella imprevedibilita' e coerenza linguistica interna che individuano uno stile, la qualita' rara del poeta.
E' una poesia, dunque, consapevolmente, strategicamente falso-antica», veramente agli antipodi dell'originale tradotto», il Roman de la rose, nella sintassi, nella metrica e nell'andamento, tutto novecentesco. L'autore non da' conto di un sogno» ma traduce da desto quel sogna'» e espone qualita' velate d'apparenza», e cioe' quel senso secondo, oltre il letterale, quella riflessione sulle cose e le parole che costituiscono, fondano la poesia e richiedono quindi sempre, nei grandi poeti, per essere tali, il confronto con la Tradizione e con la lingua, quella materna», delle mulierculae» (mondo: profondo, secondo una coppia cara a Scataglini e gia' nei suoi amati primitivi) e quella dei poeti e della letteratura.
Con La rosa si e' arrivati, ci dice e suggerisce Scataglini, al punto, alla rosa-cosa», al bivio oltre il quale si e' poi dipanata l'altra Tradizione, quella egemone fino al Novecento, il cui scavalcamento» critico rappresenta il filo della ricerca del poeta marchigiano. Sembra troppo? Non credo, questa e' comunque la tematica su cui attraverso La rosa (cara ai professori e ai poeti...) l'autore ci ha chiesto - segretamente e percio' allusivamente - di essere letto (e giudicato), con la motestia-presunzione dei grandi solitari: onnipotenti consapevoli, se poeti.

 

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di Roberto Antonelli sulla Rivista "Antico Moderno" n° 1, Roma 1995